Sull’evoluzione della lingua

La volta della chiesa era illuminata da un lampadario a più bracci. Non c’erano soffitti affrescati. Solo pietra. Scura, come il peccato. Alle pareti erano appese tavole lignee della Via Crucis. La sola nota di colore arrivava dalle vetrate. L’unico, caleidoscopico, residuo di santità in quel luogo sconsacrato. Il primo colpo di tosse attirò l’attenzione dei presenti verso il pulpito, il secondo li invitò al silenzio. “Cari colleghi dell’Accademia della Crusca, vi ringrazio per essere venuti così numerosi. Il problema è grave”.
Chi parlava indossava un cappuccio scuro. Così come tutti i partecipanti all’incontro. Si differenziava solo per un’enorme collana con un medaglione rotondo. All’interno il frullone, simbolo della congregazione. Era il Maestro Supremo.
“Silenzio, prego”. La sala ammutolì. “Come già sapete, la pestilenza ha ormai raggiunto livelli insostenibili. Non possiamo più tollerare gli audaci esperimenti linguistici che si stanno diffondendo in maniera subdola. Prima era l’espressione “piuttosto che” nel senso di “oppure”, poi la parola “top” che ha causato l’estinzione dell’80% degli aggettivi della nostra lingua. All’inizio il fenomeno era circoscritto nei locali del centro, all’ora dell’aperitivo. Poi sono arrivati i VIP, i week end, gli happy hour, i briefing. I qual è con l’apostrofo”. Alcuni fecero sì con la testa, altri si diedero di gomito. “Qualcuno deve rendere conto dell’origine del male”. Bravo, bravissimo. Ad un tratto un uomo si alzò dalla platea. “Sì bravi. Fate pulizia. Avete paura della rivoluzione, eh?”, disse. Centocinquanta persone si voltarono a guardarlo contemporaneamente. Indossava il cappuccio come gli altri, ma era evidentemente un infiltrato. Un sovversivo.
“Siete degli stupidi retrogradi. Non potete fermare l’evoluzione”. Tirò fuori una pistola. “Se sarei io il Maestro Supremo questo non accadrebbe”. Le nocche del Gran Maestro strinsero forte il leggio di legno, fino a diventare bianche. Dalla sala si levò un brusio. Presto divenne un vociare indistinto. “Dai via, sparatemi al cuore se no vi sparo io”, “Ci arrendiamo, ci arrendiamo!”, gridò qualcuno. Ma ormai era troppo tardi. Dalla canna, una bandierina: BANGH!
Centocinquanta persone trattennero il respiro contemporaneamente. Il Gran Maestro si mise le mani al petto, come a tamponare una ferita immaginaria, poi ricadde sulle ginocchia. Le prime file si alzarono in piedi. Appena in tempo per vederlo accasciarsi al suolo. Il Gran Maestro era morto. Infarto fulminante.

(di Daniela Fabbri)