Amaranto

Un fruscio in alto, tra le fronde. Probabilmente un entello, oppure un lori risvegliato dal suono dei nostri respiri affannosi e dal machete che spezza i rami.

Alzo la testa ma il sudore mi cola negli occhi, accecandomi.

Un tubare sommesso ed un battito d’ali. Non si trattava né di un lori né di una scimmia, ma di una tortora smeraldina, le cui piume sono indistinguibili dal verde brillante delle foglie.

«Manca poco», ripete Marc, forse per la milionesima volta. So che sta parlando principalmente con sé stesso.

Il colore della pelle, prima cioccolato, è ora quasi ocra. Il bel volto è scavato, i capelli fradici appiccicati alla fronte, gli occhi iniettati di sangue. Schiaccia con la mano una zanzara malarica che si era posata sul suo collo. È talmente debole che il gesto è poco più di una carezza, l’insetto vola via illeso.

«È qui. È segnato sulla mappa», dice, agitando ancora quell’inutile pezzo di carta ormai ridotto a uno straccio.

Scuoto la testa, troppo debole per rispondere. E non posso fare a meno di ripensare a tutte le persone che sono morte per portarci fino a qui. Per primo il professor Lemke, morso da un serpente. A turno tutti abbiamo succhiato il veleno dalla sua ferita, eppure dopo qualche giorno la pelle ha cominciato a marcire. Poi Uva, la nostra guida tamil, che si è spezzata una gamba e abbiamo dovuto lasciare indietro. E Annie, coi suoi splendidi riccioli rossi…

Crollo a terra, in ginocchio «Marc…»

Lui si volta di scatto, rabbioso, le narici dilatate. Poi segue il mio sguardo fino ai piedi del grande fico sacro. E si lascia cadere al mio fianco.

L’abbiamo trovato.

Tra il groviglio di radici nodose si affaccia la corolla di un unico esemplare. I sette petali intrisi di rugiada splendono di una lucentezza che nessuna illustrazione potrebbe mai riprodurre. Il pistillo grondante di nettare attira api e mosche carnarie da tutta la giungla e rende l’aria irrespirabile. Sono quasi due secoli che il suo colore inimitabile, perfetto non è stato sfiorato dall’occhio umano.

Mi volto verso Marc, sorride. Ed io vorrei solo toccare quelle grandi labbra marroni. Ci abbracciamo. Sussulto.

«Marc…»

«Questo è un fiore unico. Ed io ora solo il suolo uomo vivente a poter raccontare di averlo visto», sussurra al mio orecchio, mentre dolcemente mi accompagna verso il suolo.

Contemplo il mio sangue che si spande sulla vegetazione del sottobosco. È di un rosso cupo. Quasi viola, quasi nero.

È un colore unico, perfetto.