Caso clinico

Chiudete gli occhi. Desiderate. Sognate. Immaginate di essere chi non siete, di essere come avreste voluto essere, ridipingetevi.

Ora aprite gli occhi, tornate alla realtà, alla vostra quotidianità; non sentite il desiderio di vivere il vostro sogno, di essere quello che volete a qualunque costo?

In questa corsa irrefrenabile verso la vita che vorremmo, ma che non abbiamo, dove si nasconde la pazzia? Ci aspetta dietro l’angolo e si svela subito, o aspetta e ci colpisce quando ne siamo dentro fino al collo? E cosa ancor più interessante, qual è la sottile linea che ci permette di essere etichettati come sani o pazzi? E chi ci etichetta così?

Ad aiutarci a provare a capire chi è il vero pazzo sono gli Hidden Embers, cinque ragazzi padovani con la passione per i corti. Caso clinico è il cortometraggio vincitore del premio del pubblico, nel concorso “48 ore” di Ponte San Nicolò. I ragazzi avevano a disposizione 48 ore per ideare, girare e montare l’intero video; facendo, per regolamento, comparire un pastore scrupoloso, un piede di porco, la frase “Quante te ne sei fatte ieri sera?”, e un’inquadratura di un ponte di Padova, o di Ponte San Nicolò.

Spero vi siate presi cinque minuti per guardare il corto. A questo punto una domanda sorge spontanea, chi è il vero pazzo? Il pastore, il giornalista, l’ultimo ragazzo? C’è un vero folle?
Il punto è proprio questo, nessuno è il ‘vero’ pazzo, e nessuno è il ‘vero’ sano, ognuno è se stesso.
Il pastore con il suo gregge di pecore immaginario è felice, vive. Viene però considerato uno schizofrenico dagli abitanti del suo villaggio, a tal punto che un giornalista decide di studiarne il suo caso clinico. Nel momento in cui quest’ultimo deve intervistare il pastore, si scopre che non è mai esistito nessun pastore e che era tutto un frutto dell’immaginazione del giornalista. Il pazzo ora diventa lui, e un ragazzo, che rappresenta la società, racconta il suo caso clinico. Eccoci entrati in un circolo vizioso. Tutti puntiamo il dito contro l’altro dandogli del pazzo, per non ammettere che noi stessi siamo i primi a possedere una vena di pazzia, finendo così per appiattirci; quando è proprio tramite le nostre particolarità e la nostra follia che riusciamo a vivere come vorremmo, a ridipingerci.

“La gente vede la follia nella mia colorata vivacità e non riesce a vedere la pazzia nella loro noiosa normalità.” (Alice in Wonderland)

(di Federica Lunardi)