Corretto Fernet

Un distillato vivace, dello zucchero sempre più bianchiccio, latte di dubbia provenienza. Cosa diavolo c’è di così sbagliato nel caffè da farci sentire il pressante bisogno di doverlo correggere? Nulla, assolutamente nulla.
Qualcosa di insolitamente malato e masochista è invece insito in quella che ormai è diventata una routine: sorseggiare la vita, filtrare la realtà, giustificarla, in modo da correggere di volta in volta la visione che abbiamo di essa, per evitare di venire improvvisamente a contatto con qualcosa di troppo amaro o talmente caldo da lasciare ustioni profonde, nell’intimo.
Ecco che la realtà perde il suo aroma originale, diventando ingrediente principe di innumerevoli esistenze annacquate da speranze troppo pigre per essere poste in essere; il paradosso proprio dell’individuo che è, pur non vivendo. Questo dannato bisogno viscerale di addolcire la realtà, analizzandola in modo quasi particellare, come un tarlo nel cranio, ci porta a cercare quella certezza che darà un senso a questa realtà pellegrina. Nulla di più fuorviante.
Perché cercare la realtà al di fuori di se stessi? La realtà è ciò che si vive, e ciò che si vive è la realtà. Non si può appunto trovare un senso universale da attribuire a questo mondo proprio perché ognuno sviluppa una propria realtà che egli stesso tenta di vivere al meglio delle proprie possibilità.
Vivere, ecco la parola magica, vivere tendendo spregiudicati al domani, perché il presente non è altro che utopia, passata nel momento stesso in cui la si concepisce. Un futuro oscurato dal sipario del tempo, dove gli unici attori rimangono quelli che hanno osato, quelli che hanno seguito il rombo del tuono pur non vedendo saette.
Il resto sono solo spettatori distratti che osservano svogliatamente gli altri vivere, sorseggiando un caffè, naturalmente corretto.

di Andrea Tombolato