Dimostra che m’ami

Napoli, 25 Dicembre 1985

 Freddo tavolino, fredda penna, freddo diario. Sembra tutto più freddo, quando quello freddo sei tu. Freddo cuore, freddo animo, freddo futuro.
La giornata non cominciò bene, avrei dovuto sospettare che una moka bruciata, perché senza acqua nella caldaia, era il presagio di un giorno da dimenticare. Sveglia 6:30,tazza del water gelata, pantofola pelosa, in tv la replica di Fantastico in cui Benigni spoglia Baudo. Tutto normale, apparentemente. Poi quella moka, quell’infima moka che rompe la routine. Ecco, mi è salita la pressione. Antipertensivo e acqua fredda, vado ad aprire la farmacia; il caffè lo prenderò dopo.
Fredda serranda, fredde chiavi, fredda farmacia.
Da una finestra un guaglione grida: “Jamm bell, ja! Nevica, nevica!”. Già, dimenticavo, fredda neve.
Intanto accendo le luci e penso a Francesca, il grande amore che troppo spesso ho messo alla prova. “Chissà come sta”, penso. Le ultime nevi hanno fatto saltare i fili del telefono, e il suo lavorare giorno e notte in quella maglieria mi impedisce di vederla.
Io amo Francesca, l’ho sempre amata; ma la carne è debole, a volte debolissima.
“Povera donna, la farai schiattare.”, mi diceva sempre mia mamma. Che riposi in pace, fredda mamma.
Antinfluenzali in saldo, colluttorio in saldo, pannolini in saldo. Si, e intanto è mezzogiorno. Panino e Coca-Cola al bar della Cettina, e di nuovo in farmacia.
Ma che ci sto a fare in farmacia? Qua non c’è manco l’ombra di un morto.
Deo gratia, le 18. Fredda serranda, freddo paltò, fredda strada verso casa di Francesca.
Eccomi. Da quanto tempo non vedevo quella porta e quei gradini; è sciocco, lo so, ma immaginare che quella è casa di Francesca, sapere che lì dentro abita Francesca, mi fa sempre sorridere di gioia.
Salgo le scale senza fiori in mano, perché io amo Francesca e mica devo dimostrarglielo. Porta socchiusa, che assurdità. Fredda maniglia, freddo scricchiolio, freddo “Permesso!”
La scena non è delle migliori: un letto, Francesca, un individuo sopra di lei. La differenza sta nel fatto che qui non è un cazzo freddo. Caldo letto, caldissima Francesca, sudaticcio individuo. Indico l’individuo con la mano destra, Francesca con la sinistra. “…e chi te mmuort!”.
Sbatto la porta e torno in strada. Ad ogni passo però, la rabbia lascia posto al dolore, l’adrenalina diventa lacrima. Ad ogni passo la colpa di Francesca si affievolisce, perché le colpe sono in gran parte mie.
Giunto al bar realizzo di essere solo, di aver perso la mia essenza. E quella moka, quell’infima moka.. Ma, aspetta. Dopo più di dieci ore, devo ancora prenderlo, quel caffè.
“Vuless nu caffè, Cettina”.
“Bon Natal pur ‘a Lei, dottò.”
Ah, già. Buon Natale, Francesca.

di Diego Pontarolo