Eidolon

Ho fame. Sono stato nel deserto per inseguire la Fenice, la grande Fenice che mi ha ustionato, mi ha derubato di tutto, svuotandomi dentro. E adesso ho fame.

Seduto in disparte aspetto, faccio di tutto perché la cameriera mi noti. Niente, so esattamente quello che voglio, fanculo il menù, non ho dubbi ma la tipa sembra persa nel vuoto che la circonda, nel vuoto che circonda tutti noi. Guardami, stronza. Nessuna interazione, più penso al pasto che desidero più mi innervosisco nel vedere che non riesco ad ottenerlo, in un loop infinito che mi sta segando in due il cervello. Basta: mi alzo di scatto, sbatto i pugni sul tavolo e lo ribalto, esco da quel buco alla ricerca dell’angolo più buio del mondo; lo trovo, rimedio un pezzo di cartone ondulato e mi copro, sparisco. I giorni passano e l’asfalto sotto di me si inclina sempre più, facendomi scivolare pian piano verso il cratere che si è formato ad una dozzina di metri dai miei piedi, neanche il migliore sherpa nepalese saprebbe guidarmi alla cima di questa montagna di merda.

Ormai stremato, il maledetto istinto di sopravvivenza ha la meglio sulla debole mente e mi fa alzare, trasportandomi d’inerzia verso un centro dove distribuiscono pasti caldi ai senzatetto.

“Se vuoi sopravvivere devi mangiare”.

“Non voglio sopravvivere”.

Mi accascio su una panchina e butto giù la brodaglia che mi rifilano. Vivo. Cerco di ricordare quello che desideravo così ferocemente qualche giorno prima, non lo ricordo, chi mi credo di essere per voler avanzare delle pretese su questo mondo?

Mi ributto sulla strada, sono sazio ma leggero, così leggero da potermi librare sopra i problemi dell’umanità tutta e raggiungere quello che avevo cercato per una vita intera: il grande albero di pino, le distese di terre coltivate, gli alti tralicci della luce che si perdono all’orizzonte come giganti in fuga.

Alzo gli occhi al cielo e dovunque sia, so di essere a casa.

di Andrea Tombolato