Fuori dallo spazio, fuori dal tempo

C’era, sulla parete proprio dietro la scrivania della Morte, nell’ufficio DDM (“Destino Dei Mortali”) al 7° piano una sorta di abaco formato da una sola stecca sulla quale erano infilate varie biglie, ogni tanto qualcuna si spostava da un’estremità all’altra della stecca senza che le venisse apparentemente impressa alcuna forza. Alle due estremità dell’abaco erano affisse due targhette in platino sulle quali erano impressi dei simboli che non riuscivo a decifrare. La segretaria che mi accompagnava, notato il mio interesse per quel particolare marchingegno, decise di rompere il pesante silenzio che era calato sulla stanza ormai da una dozzina di minuti: «Una dotazione standard dei nostri operatori» esordì controvoglia, ma l’abilità con cui sfoderai il sopracciglio alzato dell’incomprensione la spinse a proseguire: «I simboli sulla targa di destra stanno ad indicare la vecchiaia mentre quelli sulla targa di sinistra la giovinezza, le diciassette biglie che vedi si spostano da una parte all’altra in base ad un criterio ben preciso: ogni volta che un certo numero di vecchi si lamenta della vita e/o pensa in modo continuativo alla propria morte una biglia si sposta verso l’estremità della giovinezza e viceversa».
Il mio indicatore di incomprensione era schizzato talmente in alto che se avessi sollevato appena un altro po’ il sopracciglio probabilmente l’occhio destro avrebbe iniziato a ballonzolarmi fuori dalla naturale cavità che lo ospita. Allora la ragazza, prestando più attenzione alla cartellina degli appuntamenti che a me, continuò: «Vedi, quello che facciamo qui è giocare d’azzardo, una roulette sulla quale dobbiamo indovinare la combinazione appropriata di individui che possano assicurare il perpetuarsi della specie, per fare ciò ovviamente molti parametri devono essere presi in considerazione ed uno dei più importanti è proprio l’attaccamento alla vita». Insistetti sull’argomento, ero appena riuscito ad accendere quel maledetto motore diesel e non volevo che morisse subito, così sparai: «Ma non dovreste prendere in considerazione ogni individuo e decidere, caso per caso, se quello sia utile o meno alla specie?». Allora la segretaria posò la cartellina sulla scrivania, si tolse gli occhiali a mezzaluna e guardandomi dritto negli occhi con un’espressione sarcasticamente materna riprese: «Manca personale e non abbiamo fondi per elaborare un sistema tanto complesso, se preferisci puoi vederci come degli umili giardinieri intenti ad estirpare le erbacce dal maestoso giardino del Creato, solo che per far ciò usiamo il lanciafiamme» fece una smorfia beffarda e continuò: «Noi ce la mettiamo tutta per estirpare i grossi mucchi di erba cattiva, indirizzando al meglio la nostra fiamma, ma inevitabilmente finiamo col bruciacchiare o addirittura carbonizzare interamente piantine che avrebbero potuto diventare grossi alberi da frutto».
Sul mio volto la curiosità lasciò il passo all’incredulità e come risposta riuscii solo a balbettare: «Ma questo vi sembra giusto?». Sembrava che la segretaria non aspettasse altro e replicò di getto, alzando il tono della voce: «Giusto? Che vuol dire giusto? Noi scremiamo dalla superficie quella putrefazione, quei frutti già marci all’interno che non potrebbero far altro se non far marcire altri frutti, magari ottimi. Sì, può capitare che sbagliamo mira, che riduciamo in cenere qualche ottima promessa, ma non è forse vero che dopo un incendio gli alberi crescono più forti e rigogliosi sulle ceneri dei loro fratelli?»

(di Andrea Tombolato)