Heathrow terminal one, two, three and five

Sono le 9 del mattino, un mattino grigio e piovoso. Vivi a Londra da poco più di due mesi e stai aspettando la metro. Intorno a te è pieno di gente che sta andando a lavorare. Anche tu stai andando a lavorare.
Il 99 % di quella gente ha le cuffie alle orecchie / sta leggendo le notizie su bbc.co.uk dal proprio iPhone o iPad (perché qui tutti hanno un iPhone o un iPad) / legge un libro / legge un libro con un Kindle / gioca ad Angry Birds. Nessuno mai osa guardarsi in faccia quando viaggia in metro. Sono tutti acari di polvere invisibili impegnati nella lettura di un crime romance book o presi dalla pulsione malata di doversi assolutamente aggiornare con i fatti del giorno. Puoi andartene in giro anche con la maglietta di Topo Gigio o delle Sailor Moon… Poco importa. Tanto non ti cagherà nessuno perché nessuno distoglierà lo sguardo da quel fottuto display.
Ti senti un niente perché anche loro per te non sono niente. Ti senti uguale a loro perché non puoi tirare fuori ciò che sei tu. Ti senti in obbligo di stare zitto perché altrimenti, se cominci a parlare a qualcuno per fare conoscenza, ti prendono per un pazzo o un ladro o un malvivente che si droga e ha solo bisogno di soldi. Qui ognuno si fa i propri affari e basta. Nessuno si fida di nessuno.
Oh, è qui il treno. Si aprono le porte e come una catena di montaggio segui la fila di quelli che stanno davanti a te, sali e con te quelli che ti stanno dietro. Piano piano senti il caldo arrivare fino alla radice dei capelli e la pressione del corpo abbassarsi. Le porte si chiudono. Il treno parte. E tu ti sei magicamente trasformato in un salame che suda appeso al palo assieme a tanti altri salami. Cazzo che caldo!
Stamattina però, oltre alla solita puzza di decine di fiati messi assieme, senti una voce. Un uomo sta cantando. E’ solo con la sua chitarra. Canta “Romeo and Juliet” dei Dire Straits, una delle tue canzoni preferite. Sai quelle canzoni che quando le ascolti, soprattutto se dal vivo, ti fanno alzare i peli delle braccia? Ecco, proprio una di quelle.
L’uomo indossa una giacca senza maniche di pelle nera e una bandana rossa in testa. Sta sudando anche lui come un porco. La sua barba è lunga e grigia. Anche il viso è grigio, segnato da un intrico di rughe e sporcizia. 
Nessuno se lo caga… Però è bravo!
Dai Dire Straits ora passa a Bob Dylan. Una donna generosa getta 10 sterline nel sacchettino appeso al manico della sua chitarra. E tra un “Mr” e un “Tambourine man” gli esce un timido “Thank you, madame”.
Ti dimentichi di essere in quell’anonima città. Ti dimentichi del caldo che devi sopportare. Non puoi far altro che ascoltare la sua bellissima voce. La voce di un uomo che viaggia sul tuo stesso treno, proprio oggi, proprio a quest’ora; e che canta le poesie di Bob. Scorgi il suo sorriso tra le teste che fluttuano davanti a te. Ti chiedi da dove arriva, che strada ha fatto, dove vive. Se vive, se mangia, se è felice. I suoi occhi ti suggeriscono di sì. Vorresti dargli una sterlina ma tutto quell’ammasso di gente te lo impedisce. È l’unico uomo, dentro quel vagone, che ti sta simpatico e col quale andresti a farti due chiacchiere. Lo ascolti ancora un po’. Poi sei arrivato.
Scendi dal treno e d’improvviso quell’uomo non c’è più e ti dispiace non sentirlo cantare ancora. Per una volta però, dopo mesi che vivi lì, vai a lavorare contento. Quell’uomo ha dato un senso alla tua giornata. Un uomo che probabilmente non possiede nulla e non ha nulla da darti. Nulla se non la sua chitarra. La sua voce. La sua anima.

(di Maria Chiara Costa)