La cerimonia del caffè

Domenica pomeriggio, passeggiata per le strade di Adwa.
Come sempre, siamo additati con curiosità e per tutto il percorso ci segue il grido “farenji” (straniero) e una scia di bambini piccoli e grandi che si appendono alle nostre mani, felici anche solo di poter avere quel piccolo contatto con noi.
Incontriamo Daniel e Milena, due bambini dell’Oratorio, che ci chiedono di andare a casa loro; qui troviamo la madre e altri due fratelli: Tedros e Adhanet.
Showitt, il più grande, sta lavorando: il padre si è suicidato, ed è compito suo prendersi cura della famiglia da quando successe la tragedia e lui aveva appena nove anni.
La madre ci accoglie come fossimo re e regine, e grazie a Beatrice che ha vissuto quasi un anno in Etiopia riusciamo a comunicare con lei.
La casa ha il pavimento in pietra, è composta da due stanze e il mobiliò è costituito da tre letti e un tavolo con disposti ordinatamente i loro pochi averi; la donna ci accoglie entusiasta e ci invita a partecipare alla Cerimonia del Caffè.
Grati, accettiamo ma Beatrice la prega di non prepararlo per tutti dato che siamo in undici e conosciamo la loro precaria situazione economica, lei annuisce sempre sorridente e inizia a bruciare l’incenso.
L’aroma si diffonde per tutta la piccola stanza e noi ci accomodiamo.
La madre manda Milena nelle case vicine a prendere delle tazzine (“fingian”), capiamo che ha orgogliosamente deciso di preparare il caffè per tutti, nonostante la nostra richiesta. Lava con dell’acqua in una piccola bacinella le stoviglie e le dispone su un vassoio.
Mentre noi giochiamo con i bambini e ridiamo tentando con loro di tenere polli e galline fuori di casa, lei tosta i chicchi e poi avvicina la padella ad ognuno di noi, disposti a cerchio com’è consuetudine, per permetterci di assaporarne il profumo.
Poi li macina con un pestello, aggiunge dell’acqua e versa il tutto nella brocca chiamata “jebena”, una volta scaldata la miscela riempie per ciascuno di noi una tazza e porge a Milena dei soldi, ma noi non ce ne accorgiamo.
Notiamo solo che la bimba esce, al ritorno porta con sé delle pagnotte di pane dolce, una specie di focaccia che da rito accompagna la Cerimonia del Caffè. Nelle famiglie meno povere si consumano anche popcorn e frutta, ma già il fatto di aver comprato quel pane possiamo solo immaginare quanto possa gravare sui pochi risparmi della famiglia.
Dopo aver bevuto le tre tazze di rito, senza farci vedere dalla donna, raccogliamo qualche Birr e li mettiamo nelle mani di Milena dicendole di darli alla madre quando ce ne saremmo andati, se glieli avessimo porti direttamente la donna non li avrebbe mai accettati.
Ci alziamo per andarcene, e lei in un inglese stentato ci augura “God bless you” e aggiunge in lingua tigrina la richiesta di andare a trovarla ancora, prima di tornare in Italia.
Ricordo i suoi occhi mesti ma allo stesso tempo sorridenti, sconfitti dalla miseria che solo una vedova etiope può conoscere ma contemporaneamente riconoscenti a Dio.
Come dopo altre esperienze vissute ad Adwa, il primo sentimento che mi invade l’anima nel ritorno verso la Missione è il senso di colpa. La mia coscienza è ormai allenata a fare dei confronti con la vita occidentale, e mi convinco sempre di più della generosità di chi non ha praticamente nulla e regala quel poco che possiede senza aspettare nulla in cambio, mentre chi ha troppo fatica a donare alcunché.
Sono lusingata e stupita di essere stata accolta con tanta gioia e fratellanza da una donna che avrebbe avuto tutte le ragioni di odiarmi, anche solo per il fatto che i vestiti che indossavo valevano probabilmente come tutte le cose da lei possedute.
Ma il senso di colpa è solo un punto di partenza, non quello d’arrivo.
Ho imparato che è necessario che io faccia vuoto dentro me stessa, per accogliere tutto ciò che incontro di nuovo e diverso, e raccontarlo a chi non l’ha vissuto sulla propria pelle diventando testimonianza di un amore universale.
Anche di quello che è racchiuso in un semplice rito, come può essere la Cerimonia del Caffè etiope.

(di Sally Parolin)