L’Aratro.

Ho sempre avuto la sensazione che nel mio paese non succedesse niente, anche se a pensarci bene non è poi così vero. Migliaia di storie personali si sfiorano ogni giorno, in un intreccio spesso difficile da cogliere o vedere. Quindi più che noioso mi limiterò a definirlo grigio, mutato radicalmente dall’andamento demografico e dalle speculazioni edilizie. Nel mio quartiere, nessuno saluta mai. I vicini di casa si scorrono accanto rannicchiandosi su loro stessi o facendo finta di scrivere un sms per non doversi scomodare a fare un cenno. L’unico che saluta è il vecchio Gianni, che abita in una delle poche case indipendenti rimaste nel mio quartiere residenziale. Aveva sposato la figlia dei vicini, che all’epoca si conoscevano, e da giovane lavorava in una fabbrica in periferia. Quando gli parlavo delle mie ansie mi diceva sempre che gli ricordavano quello che provava quando faceva l’operaio, prima di decidere di fare il sindacalista. Solo una volta inserito nella grande narrazione del movimento operaio le sue incertezze sparirono. Per anni la stessa storia, le stesse manifestazioni, gli stessi slogan. Annotava ogni singolo avvenimento su un taccuino nero, e lo faceva anche mentre parlava con me. Io di tutta risposta pubblicavo in tempo reale su Facebook quello che mi diceva. A pensarci bene certe sue frasi una volta trascritte sembravano quasi degli aforismi di un qualche Oscar Wilde di campagna. Mi chiedeva sempre perché i ragazzi della mia età non facevano più la tessera del sindacato, perché non partecipavano più alle sue manifestazioni. Io rispondevo che se pure mia nonna si era rassegnata a vedermi arrivare con delle amiche e non con delle fidanzate, anche lui avrebbe potuto rassegnarsi a qualcosa. Io ho poco più di vent’anni. Delle mie ansie vi ho già fatto cenno, quindi non vi sembrerà strano sapere che ho cambiato tre facoltà, ogni volta convinto che fosse quella giusta.  Inoltre,  sono uscito con un onorevole numero di ragazze che credevo giuste per me, e con un discreto numero di amici che credevo tali. Poi, dopo averle avute o averli capiti, guardavo lontano. In particolar modo riguardo le ragazze non riuscivo ad accettare che nell’epoca della globalizzazione la mia futura moglie potesse essere la figlia dei vicini di casa. Troppa scelta, troppe possibilità. Del resto anche se ci stavo bene, chi mi assicurava che non sarei potuto stare meglio con un’altra? Chi mi assicurava che questa qualcuna non mi stesse aspettando in chissà che parte del mondo, magari in quel Kamchatka tante volte conquistato a Risiko? L’unica cosa che mi metteva più ansia del pensare alla grandezza del mondo era il sapere che avrei potuto andare ovunque, in quello stesso mondo. Per mettere a tacere i pensieri avevo trovato un rimedio casalingo, guardare i film che Italia 1 mandava in onda durante le mattine d’estate. La consapevolezza del lieto fine somigliava al calore di un abbraccio materno, e mi tranquillizzava. Un giorno a una festa conobbi Marta, una ragazzina che avrà avuto si e no la mia età. La dolcezza del suo sorriso formava un ossimoro con la durezza del suo nome. Parlammo per ore, fino a che la invitai a bere un caffè il giorno successivo. Mi rispose che forse non era il caso, spiegandomi che qualche settimana più tardi sarebbe partita per l’Africa. Robe da restarci secchi, anche quella ragazzina sapeva in che direzione stava correndo. Tornai a casa molto agitato. Avevo  fretta di conoscere la mia di direzione, cosi’ misi in borsa qualche vestito e chiusi la porta di casa. Qualche paese e due bus più tardi arrivai alla più grande stazione ferroviaria che ci fosse nei dintorni. Per tutto il tragitto avevo avuto la stessa sensazione di sempre, la sensazione di aver fatto la scelta giusta. La sensazione svanì per l’ennesima volta quando mi trovai di fronte al tabellone degli orari. Troppa scelta, troppe possibilità. Schiacciando qualche tasto comunicai al mondo il mio ultimo fallimento. Stavo cercando comprensione in quella stessa immensità che amplificava le mie ansie da prestazione. Una volta a casa cominciai a scorrere la mia pagina profilo, sempre più giù, sempre più giù, alla ricerca dell’inizio. Scendendo lungo il corso dei giorni, stato dopo stato, copiavo ogni parola del mio passato su un taccuino molto simile a quello di Gianni. Pian piano scoprii gli scenari, gli altri personaggi, le avventure già vissute. Non riuscii a risalire fino all’inizio della storia, ma presi l’abitudine di annotare il mio percorso giorno dopo giorno. E col taccuino in tasca a ricordarmi le mie peripezie, il mondo cominciò a sembrarmi meno sterminato.

a cura di Nicolò Pettenuzzo