L’Aratro.

Non riesco a ricordare un singolo momento in cui non fossimo in tre, uno e trino. Ovviamente il migliore sono sempre stato io. Il mondo se ne accorse ancora prima di me, e per tutta la vita questo mi venne sempre riconosciuto. Se ne accorse la prima maestra che ebbi all’asilo, che per due anni di fila mi fece recitare da protagonista nella recita di fine anno. Dico due perché la stessa maestra obbligò i miei genitori a farmi fare la Primina anche se il mio compleanno cadeva sul finir di Novembre. Fu l’inizio di un cursus honorum sfavillante, passato attraverso l’imposizione materna di frequentare il Classico più importante della città e concluso con laurea a pieni voti in una delle facoltà di Economia più prestigiose d’Italia. Poi il lavoro da manager in una grossa azienda, la ragazza più bella del paese per moglie e uno stipendio di giada.

Dicevo che non ricordo altro momento in cui non fossimo in tre perché la facoltà la conclusi io, ma la giusta scelta la fece per me uno dei miei più cari amici. Mi indirizzò Carlo, che aveva notato come fossi abile a concludere vantaggiosissimi scambi di figurine o ragazze. Lui avrebbe sempre voluto fare il musicista, ma i suoi gruppi facevano a dir poco pena. Aveva però un incredibile talento da dj, quasi un superpotere. Riusciva sempre a capire che canzone avrebbe voluto ballare la gente nell’esatto momento in cui sarebbe finita la canzone che stava suonando. Era qualcosa di diverso da una premonizione, era lo star in collegamento diretto col pensiero di massa. Lui però preferiva chiamarlo “vivere nel paese reale”. E non ricordo altro momento in cui non fossimo in tre perché la ragazza più bella del paese me la presentò un altro grande amico, Vittorio. Lui con le gente ci sapeva davvero fare. Era sempre stato un medianaccio dai piedi di pietra nella squadra del suo paese, ma veniva riconosciuto da tutti come il collante dello spogliatoio. Gli volevano così bene che gli offrirono pure la panchina da allenatore. Lui rifiutò, preferendo le chiavi del furgoncino e il ruolo di accompagnatore. Una scelta immediata, frutto del suo superpotere di riuscire a far brillare tutti i punti di una costellazione. Lui però preferiva chiamarlo “capacità di fare squadra”.

Per noi, però, non fu tutto rose e fiori dall’inizio alla fine, e il momento critico arrivò proprio in quegli anni in cui ci perdemmo un po’ di vista.

Venne la crisi, una multinazionale comprò l’azienda che dirigevo e preferì sostituirmi con un giovane manager svizzero.

Per non parlare di Carlo, che perse migliaia di euro investendoli in quello che credeva essere il mercato del futuro.

Vittorio invece, dopo aver ammogliato felicemente mezzo paese, si rese conto che forse l’unico accoppiamento che aveva sbagliato era stato proprio il suo.

Eravamo caduti in quei campi in cui i nostri superpoteri avrebbero dovuto aiutarci di più.

Forse non eravamo noi gli eroi destinati a cambiare il mondo, o forse non eravamo destinati a farlo nella maniera in cui ci avevamo provato fino ad allora.

Carlo entrò in un periodo di profonde riflessioni. Il suo superpotere vibrava molto forte in quei giorni, captava l’esigenza di rallentare di chi gli stava accanto e così passammo molte serate a discutere riguardo la velocità del mondo.

Anche Vittorio ogni tanto si aggiungeva a noi, facendoci presente che rallentare avrebbe significato far morire di fame le proprie famiglie, che per rallentare sarebbe servito spostare più di qualche pedina.

Fortunatamente la disoccupazione mi diede molto più tempo da dedicare alla famiglia, e per questo cominciai a portare ogni giorno mia nonna al nuovo supermercato in centro. La portavo quotidianamente perché era sempre stata abituata a comprare il latte nella piccola bottega di frazione, e si era rifiutata categoricamente di cambiare costumi. Quella piccola bottega, nel tempo delle macchine veloci e dei discount, aveva finito per chiudere come tante altre. Un giorno anche Vittorio ci accompagnò durante lo svolgimento di questo rito, e fu proprio lui ad accorgersi che il latte del supermercato non sembrava soddisfare la vecchietta come quello del suo vecchio negozio di alimentari. Aveva capito dalla sua espressione vuota che le mancava il valore aggiunto che solo la vecchia bottega poteva darle, la chiacchiera con le altre nonne della frazione. Lo dico onestamente, senza Vittorio non mi sarei mai accorto di quel tacito lamento. E dico altrettanto onestamente che senza gli input di Carlo non avrei mai capito che quel lamento era voglia di rallentare.

Pensando a un modo per collegare latte, chiacchiera e utili d’impresa finimmo col fondare l’azienda che sarebbe diventata la più grande catena di “negozi alimentari chiacchieranti” del mondo, con sedi in più di 2000 paesi sotto i 2500 abitanti.

In realtà riuscimmo a fare molto di più, creare un nuovo modello economico partendo da un vecchio modello sociale.

Le nostre intuizioni erano figlie dei nostri poteri, ma nonostante le numerose discussioni a riguardo nessuno di noi arrivò mai a dire con certezza quale fosse stato il più potente e decisivo dei tre.

Io, il genio. Carlo, il dj.

Vittorio, l’accompagnatore.

a cura di Nicolò Pettenuzzo