L’Harem di Dura

Ciò che mi lasciai alle spalle erano solo morti, spade spezzate e famiglie infrante nel tempo dei giochi di potere. Il grande impero romano unito da cesare giaceva sull’orlo di una sanguinosa guerra interna. Le ambizioni di marco antonio si espandevano nel vicino oriente nella terra dei parti, la stessa terra dove gli imperi cambiavano soltanto nome e le loro satrapie stendardo.
La fallimentare sconfitta di marco antonio ad est fece ritirare l’esercito verso l’Armenia ed io mi ritrovai solo nel deserto che credevo fosse dell’Arabia Magna.
Dopo giorni di vagabondaggio tra dune che via via si facevano vive di vegetazione arida, mi ritrovai difronte a delle possenti mura, impenetrabili da qualsiasi straniero.
Impenetrabili per qualsiasi romano.
Non molto lontano, vi era un fiume dove sulle sponde centinaia di soldati partiani marciavano per entrare in città; decisi di tuffarmici dentro e aspettare l’attraversata dei militari; vi entrai per paura e forse per l’enorme sete che mi portavo dietro da giorni di marcia nel deserto.
Entrando nel fiume una sensazione di sollievo e delicatezza mi pervasero, come quando dopo una campagna ritorni tra le braccia della tua amata nella tua comoda alcova; dentro il fiume il tempo sembrava fermarsi, sentii una forza tirarmi verso il fondale che credevo infinito; scivolai sempre di più verso quell’abisso buio e guardai lo specchio d’acqua allontanarsi fino a dissolversi.
Quella forza mi trascinò fino ad un buco posizionato orizzontalmente vicino al fondo, più mi addentravo e più la luce iniziava a pervadere quel tunnel che all’inizio era composto da arenaria fino ad arrivare a mattoni composti da quest’ultima.
Mi accorsi che l’aria iniziava a mancare e la mia testa iniziava a pulsarmi, pensai di provare a respirare lo stesso ma la mia logica e il mio sangue freddo forgiato da addestramenti militari mi fecero desistere fino ad arrivare allo svenimento.
Al mio risveglio vidi 3 donne anziane che mi scrutarono toccandomi le ferite e i pettorali scolpiti come quelli di Achille ma con la carnagione di Annibale.
Le 3 signore continuavano a massaggiarmi le ferite con unguenti e impacchi di erbe, quando intravidi una sagoma femminile avvicinarsi, era una giovane ragazza, bella come il sole di Cirene in primavera, la sua pelle era olivastra e i suoi capelli raccolti da un velo bianco a maglie sottili che mi fecero capire che la cultura ellenica seppur poco era ancora viva in questi luoghi.
La dea scesa in terra mi porse una coppa di acqua e mi disse in latino di berla lentamente.
Passarono tre mesi e ad ogni domanda che feci ricevetti risposta:
Dove ero? A Dura, città che si affaccia sull’Eufrate nel cuore della Mesopotamia.
Cos’era quel posto pieno di donne e perché non dovevo farmi vedere dagli uomini?
Non avevo mai sentito prima di allora la parola harem, ma in Egitto molti secoli prima vi era qualcosa di simile.
Quelle donne, quindici in totale stavano rischiando la vita per uno sconosciuto, che molto volentieri appagava gli accoppiamenti richiesti, ma ero pur sempre uno sconosciuto in balia di donne che non toccavano carne giovane da troppi anni e forse da tutta la vita.
Le settimane passavano in questo immenso giardino termale, tra le grazie di donne più o meno desiderabili visto la svariata età, ma pur sempre donne con una loro intelligenza e un fascino misterioso. Mi innamorai perdutamente di quella donna che vidi per prima entrando in questo harem; lei folle di un sentimento mai provato mi chiese di scappare e io seppur titubante accettai la sfida, perché di sfida si trattava: dovevo superare il muro che separava il giardino e di soppiatto sgattaiolare dalla porta dell’armeria presidiata dalla milizia.
Proposi la fuga anche alle altre concubine ma declinarono l’invito, troppo impaurite di scoprire la vita in un mondo truce e brutale.
All’alba decidemmo di scappare, preparammo un sacco di pelle di capra con provviste e borracce d’acqua, salutammo le splendide donne che mi insegnarono l’amore e andammo verso il muro pronti a scavalcarlo, misi una mano sopra l’altra e feci leva per far salire la mia amata; salii anche io e poco dopo riuscimmo ad eludere le guardie dell’armeria; uscendo feci cadere una lancia appoggiata al muro adiacente alla porta e una guardia ci vide, scappammo con tutto il fiato che avevamo in corpo; scese le lunghe e ripidi scalinate dell’armeria trovammo la porta segreta che dava alle mura.
Usciti da esse una distesa desertica ci sbatté davanti gli occhi e la concubina si pietrificò dinanzi a questa visione meravigliosa e al tempo stesso letale.
Il grande portone d’ingresso si aprì e dei corni risuonarono l’uscita della cavalleria, allungai la mano e afferrai la donna al mio fianco, le dissi che era l’ora di correre e così fu; la ragazza non riusciva a starmi al passo e sentivo scivolare sempre di più la sua mano.
Dalla grande porta uscì un carro d’oro con un uomo pasciuto vestito in rosso e oro, il conducente a petto nudo schioccava la sua frusta contro i cavalli bardati in malo modo.
Il nostro passo decresceva e la paura aumentava sempre di più.
La sabbia scottava e i nostri piedi rossi erano diventati insensibili al dolore dei sassolini taglienti che puntualmente ferivano la nostra pianta del piede.
Il carro ormai a pochi passi da noi ci superò e si fermò sbarrandoci la strada; il conducente con un sorriso sadico ci fissava, il signore al suo fianco urlando di rabbia fece fatica a scendere e inciampò sbattendo la faccia sulla sabbia; lentamente facendosi forza con le braccia si rialzò rosso in viso come il suo vestito. La sua rabbia unita alla vergogna esplose in un urlo minaccioso, corse verso di noi tenendosi la pancia e il turbante, io mi posizionai davanti la ragazza così da intercettarlo, ma una freccia mi colpì la spalla e caddi a terra steso su di un fianco come un elefante morente dopo una battaglia. Vidi il vecchio paffuto uomo in rosso correre verso la sua concubina e tirargli un pugno sulla pancia facendola piegare, io gemetti senza fiato, subito l’uomo tirò uno schiaffo e la fece cadere. L’uomo che mi colpì con una freccia si avvicinò a cavallo e gettò una pala, disse qualcosa all’uomo sul carro e quest’ultimo iniziò a scavare senza indugiare.
Più la sabbia spalata si accumulava e più capii che il mio tempo stava per terminare; feci le ultime preghiere e piansi una lacrima amara perché non avrei mai più provato l’incanto dell’amore.
Mi presero con forza e mi gettarono dentro la buca, uno dei due mi tirò per i capelli, trascinandomi verso l’esterno; l’altro uomo prese la pala e iniziò a buttarci la sabbia dentro.
Nel frattempo l’uomo in rosso teneva per le mani, legate dietro la schiena, la donna che piangeva disperatamente.
Una volta riempita la fossa i due pisciarono sulla mia testa e ridendo si avvicinarono al loro capo, questo prese la sua spada lucente e recise il collo della giovane.
Il sangue sgorgava verso la mia posizione e io scioccato chiusi gli occhi.
Li sentivo ridere e lentamente allontanarsi lasciandomi a marcire sotto quel sole cocente.

Ho perso il conto del tempo passato ma ho solo una certezza.
Questa terra pagherà con il sangue.

(di Leonardo Bano)