L’ombra del vino

Tutti i veneziani sanno cosa sia un’ombra e quasi tutti sanno che il bicchiere di vino prenderebbe il suo nome dall’ombra del campanile in piazza San Marco che riparava dal sole le bancherelle dei venditori ambulanti di acquavite. Altri credono che sia l’ombra gettata dal vino rosso sul bancone dei baccari a mezzogiorno, ma pochi, pochissimi, tra i cittadini della Serenissima conoscono la vera storia che racconta l’origine oscura di questo nome. Questa leggenda pare sia nata tra le calli di del ghetto ebraico, dove le case aumentano il numero di piani pur mantenendo la stessa altezza degli altri palazzi lagunari, raccontata dalle vecchie balie nelle stanze dai soffitti bassi per spaventare i bambini e farli addormentare. Non ricordo chi o quando la raccontò a me la prima volta. Questa storia parla di un uomo che usciva da casa solo a carnevale, potendo indossare una maschera d’argento per coprire le piaghe e le ustioni dopo essersi bruciato la faccia dalle fiamme dell’inferno. Si dice che in una vecchia locanda, stretta da due calli, assediata dall’acqua dei canali e dalle assi di legno maleodoranti per l’umidità assorbita negli anni, un prete fosse solito bere da solo fino a ridursi completamente ubriaco. L’uomo di chiesa entrava al tramonto e andava a sedersi in un tavolo nell’angolo più lontano dalla porta e beveva a lunghe sorsate aspettando l’alba. Stava sempre seduto dove l’ombra si faceva più fitta e la luce delle lampade s’arrendeva. L’oste non lo cacciava mai e neppure raccontava chi fosse il suo cliente più fedele: si limitava a servirgli da bere e quando veniva per lui il momento di andare a dormire, accostava al tavolo del prete altre due caraffe di vino rosso e senza dire altro si ritirava nelle sue stanze come un animale va in letargo ai primi freddi. La mattina l’oste trovava sempre più monete di quanto dovuto a saldo del vino bevuto. Con quegli schei in più, l’oste sapeva che il sacerdote comprava il suo silenzio ma anche senza quell’argento l’uomo non avrebbe mai osato spifferare ad anima viva del suo vizio del bere: c’era qualcosa in lui che lo spaventava e il fatto che il prete sembrasse non dormire mai, di giorno infaticabile nel suo esercizio di pastore e di notte altrettanto instancabile bevitore, lo gettava in uno stato di angoscia che gli faceva digrignare i denti per l’irrequietudine. Con il passare delle stagioni quella presenza divenne più che cliente abituale, era un avventore costante, sembrava quasi fosse diventato tutt’uno con le ombre della parete. Nessuno gli dava attenzione, né i clienti né le puttane, ; anzi, sembrava proprio che nessuno lo notasse. Più di una volta l’oste avrebbe potuto giurare di non averlo mai visto entrare dalla porta del suo baccaro. Tuttavia il prete passava il giorno a predicare con fervore il libro di Dio e con passione cercava di convertire all’unica religione gli abitanti del sestriere e ogni viandante e ogni mercante che passava nel campo davanti la sua chiesa. La sua condotta era virtuosa ed esemplare e i suoi superiori non ebbero mai una volta a lamentarsi. Questo accadeva quando il sole era alto; ma una volta calate le tenebre, non visto dal suo gregge, si rifugiava nella taverna e passava le ore notturne a ubriacarsi. La sua storia non si sarebbe mai venuta a sapere se non fosse stato per l’uomo con la maschera d’argento. Infatti, durante un notte degli ultimi freddi d’inverno, il prete sparì e da allora nessuno lo vide più, né nella locanda né a Venezia o in tutti i domini della Repubblica. Al posto dove sedeva solitamente c’era invece uno straniero che si copriva la faccia con le mani e la cui voce era incrinata dal terrore. L’uomo era arrivato a Venezia la sera prima, in occasione del carnevale che si sarebbe tenuto di lì a qualche giorno, e aveva chiesto una camera nella locanda e unico, fra tutti quelli che nel corso del tempo si erano fermati a bere e mangiare, si era seduto di fronte al prete e gli aveva dato a parlare. Lo straniero aveva notato che il prete si lamentava della sua misera condizione e pareva inconsolabile. Tra sé e sé mormorava maledizioni accusando Dio e recriminando di lavorare contro i suoi stessi interessi. Lo straniero non credeva alla sue orecchie: era blasfemo e folle il discorso del prete, ma fu nulla in confronto a quanto accadde subito dopo. A questo punto della nostra storia l’oste era già andato a dormire e non c’era più nessuno nella locanda tranne il prete e, diversamente dal solito, lo straniero. Quando l’oste si svegliò l’indomani, aprendo gli scuri per illuminare la stanza, trovò l’uomo riverso sul tavolo dove si era seduto la sera prima, ma appena il brav’uomo provò a sollevare il suo cliente credendolo ubriaco s’accorse con orrore e cacciando un urlo che poco aveva d’umano: che l’uomo aveva la faccia completamente ustionata e lembi di carne si staccavano dalle ossa. Eppure nulla, a parte la sua faccia, sembrava fosse stata stato bruciata. Prima che potesse raccontare quello che era accaduto durante la notte dovettero passare lunghe settimane in cui molti, dapprima nel campo e poi via via che si diffondeva quella storia, nel sestriere, temettero per la vita dello straniero in preda alla febbre e al delirio. Nei giorni di convalescenza, nei brevi momenti di lucidità, emergeva lentamente una storia agghiacciante. Si disse in giro che la sua fosse una storia dettata dal delirio, ingigantita dagli eccessi dei pettegolezzi del carnevale, ma l’uomo non cambiò mai la sua versione dei fatti e alla fine, prevalsero la ragione e il buon senso e lo straniero venne considerato da tutti pazzo. Da allora l’uomo si ritirò a vivere in una casa in una calle a Cannareggio, uscendo solo durante i bagordi del carnevale, indossando la sua maschera per nascondere il viso e pronto a raccontare cosa accadde quella notte in cui rimase solo con il prete. Ricordava a tutti che lui era arrivato a Venezia per affari e dopo aver preso una stanza aveva deciso di ristorarsi mangiando qualcosa e bevendo la birra. Essendo da sempre una persona socievole e reputandosi un uomo giusto e timorato di dio, scelse istintivamente di sedersi di fronte al prete e di passare la sera con lui. Raccontò che rimase sconvolto delle lamentele blasfeme del prete, ma poco dopo lo straniero raccolse una vera e propria confessione dall’uomo di chiesa, la confessione di un segreto al di là dell’umana comprensione. Il prete raccontò all’uomo che era avvilito e stanco della sua missione di uomo di chiesa. Che ogni giorno viveva una condanna insensata il cui scopo, seppure chiaro, lo scuoteva e lo tormentava fin nel profondo del suo essere. Il prete si rendeva conto che ormai nel mondo i credenti era sempre meno e che sempre più persone erano sedotte dalla scienza. Era l’alba di una nuova religione del mondo che metteva alla prova la realtà: la ragione poteva comprendere e addomesticare i misteri e l’uomo aveva innalzato sui nuovi altari la tecnica tra alambicchi e lo sfarzo di telescopi e microscopi. L’antico e unico Dio vacillava sul suo trono celeste. Mentre raccoglieva quello sfogo la luce della candela si consumava inesorabilmente e riversava rivoli di cera sul tavolo reso appiccicoso dai succhi delle pietanze servite dal taverniere in modo grossolano e frettoloso. Le ombre aumentavano e la poca luce illuminava il volo livido e tirato del prete. Il ministro di Dio affermò che anche il Diavolo vedeva le volte e le pareti infernali del proprio regno incrinarsi e crollare. C’era stato un tempo in cui il Diavolo si pavoneggiava con sé se stesso di esser riuscito a far credere all’umanità intera di non esistere, ma a quell’epoca l’umanità credeva comunque nell’unico Dio e le sale dell’inferno grondavano di sangue dei dannati. Ma ora, con l’affermazione del potere della scienza sul mondo, col passare dell’eternità le anime che popolavano il regno del cielo e quello dell’inferno, lentamente, si sarebbero estinte. Presto non vi sarebbe rimasto nessuno. Lo straniero era stranito e reso inquieto da quella storia sacrilega. Stava per alzarsi e andarsene quando il prete artigliò il bavero della giacca dell’uomo per trarlo a sé, il volto vicino come un miope, e continuò la sua storia, avvicinandosi all’uomo e sussurrandogli sottovoce all’orecchio. Con un soffio d’alito sulfureo confessò di sapere con tale esattezza e dovizia di particolari quella storia perché lui stesso, in realtà, era il diavolo. Il re degli inferi, l’eterno dannato, l’angelo caduto. E indossare gli abiti di un prete e cercare proseliti per Dio lo faceva soffrire più di tutte le dannazioni che aveva inventato durante l’eternità delle fiamme. Il tempo degli uomini devoti al cielo e timorati dall’inferno ero finito: la ragione aveva prevalso e ormai pochi credevano ancora in Dio. I più professavano l’unica fede per inerzia e pedanteria nel ripetere le abitudini, i costumi dei loro padri, piuttosto che per intima convenzione. Il credo era morto. E se pochi ascendevano al cielo, ancora meno precipitavano all’inferno. Il re delle ombre era senza corona. Non riusciva a capire, nonostante tutto il suo genio e la sua potenza, come fosse possibile che Dio, l’eterno onnipotente, lasciasse che l’uomo si dimenticasse del suo proprio creatore e fattore, condannandolo a un’inesorabile dissoluzione. Davanti a tale desolazione di fede sulla terra, il diavolo prese una decisione che mai, da quando era stato scacciato dal paradiso e precipitato sulla terra, mai aveva immaginato. Decise di abbandonare le sale della dannazione per recarsi sulla terra, spoglio di tutti i suoi attributi demoniaci e indossando l’abile talare. Non aveva più alcun senso cercare di indurre in tentazione uomini e donne che non credevano in nulla. Quello a cui era costretto a fare era predicare la parola di Dio e proporsi come il più fulgido esempio. A volte pensava che fosse stata la più grande delle beffe di Dio, che tutto il creato non fosse stato nient’altro che una trappola meticolosamente preparata per costringerlo a tornare sui suoi passi, per imporre nuovamente la sua volontà su di lui, il rinnegato, manipolando lui e l’umanità tutta. Il disegno era così sottile che il diavolo si rendeva conto che, nonostante all’alba della creazione si fosse ritenuto pari a Dio fino a ribellarsi, ora doveva ammettere di essere stato sconfitto. L’allievo non aveva superato il maestro, non c’era mai riuscito e inaspettatamente pagava la sua tracotanza nel modo più avvilente: predicare il nome di Dio. A ben vedere non era neppure costretto da Dio a fare quello che aveva deciso di fare, non gli era stato imposto di tornare nell’ovile, pecora tra le pecore: era stata una sua decisione, di Lucifero, e veniva fatta la volontà del diavolo. Secondo la volontà di Dio. Questo pensiero lo perseguitava come e più di tutte le anime dannate del suo regno. E dopo aver assunto forme mortali scoprì, officiando messa, che bere gli ottundeva i sensi, regalandogli un qualche sollievo. Ma essendo il re dei demoni la sua sete non aveva fine ed era questo il motivo per cui beveva tutta la notte, tutte le notti. Beveva per dimenticare che era stato gabbato da Dio e che era tornato a glorificare il suo nome nell’alto dei cieli, come prima della sua ribellione e senza neppure essere stato costretto. Si era ridotto a vestirsi da prete e ogni giorno cercava di convertire quante più persone possibile perché ormai quasi nessuno credeva più in Dio e di conseguenza nessuno credeva in lui. L’inferno si sta svuotando e così il paradiso. E se Dio non faceva nulla, lui, Lucifero non poteva restare impassibile nel vedere il creato collassare su se stesso. Questo fu la confessione del prete che falciò l’anima dello straniero. Appena terminato il suo sfogo, il prelato bevve in un unico lungo sorso il vino del bicchiere, lo poggiò sul tavolo e sussurrò all’uomo con tono sarcastico: “Prendete e bevetene tutti, questo è il mio sangue offerto in sacrificio per voi.”. Immediatamente dopo in una vampata di fiamme mutò il suo aspetto mostrando la sua natura demonica. Lo straniero non ebbe il tempo di coprirsi la faccia che avvampò come uno stoppino imbevuto d’olio. Allora il diavolo precipitò in una oscura voragine brulicante di corpi dilaniati e straziati da lingue di fuoco mentre lui svenne sul tavolo, in una pozza di sangue, con il volto scarnificato e completamente bruciato. E da allora lo straniero indossa una maschera d’argento, rifugge la luce e prediligendo le ombre raccontando la sua storia nelle feste del carnevale a chiunque gli paghi da bere e gli offra un bicchiere di vino. Un ‘ombra che lenisca il calore del fuoco demoniaco che ancora gli arde in faccia.