Mai così bene

Renata cercava lame d’argento nel cielo grigio cemento. Erano le cinque e mezza dell’ennesima giornata trascorsa chiusa in ufficio. Fino a quell’ora l’unico cielo che aveva visto era quello di Windows. Ma era felice così, Renata. I suoi colleghi si trascinavano come zombie lungo i corridoi, mentre lei li percorreva con la falcata sicura di chi ti entra in casa senza chiedere permesso. Adorava il rumore dei tacchi sul pavimento in finto parquet. Allo stesso modo amava Milano. Le notti da bere fino all’ultimo goccio di Long Island, i palazzoni grigi, i taxi, il colorito giallognolo delle facce dei suoi abitanti. Ogni volta che usciva dall’ufficio dopo le dieci di sera sentiva una leggerezza che non sapeva spiegare, simile alle farfalle nello stomaco. Proprio lei, che era stata soprannominata la Valchiria.

Si chiuse la porta a vetri alle spalle e si incamminò lungo il marciapiede. L’unico verde che le riempiva la vista era quello dei semafori. Quel colore la disgustava. Le ricordava la natura che aveva fatto da cornice alle sue giornate fino ai ventitré anni.

Vedrai che tornerai, continuava a ripeterle sua madre. Singhiozzava, la poveretta. Renata si limitava ad annuire.

Il motivo che le aveva fatto fare i bagagli era banale: l’amore. Che a quei tempi portava il nome di Marco. Era arrivato un sabato di maggio, cercava un posto tranquillo mentre un avvocato rimediava ai suoi guai. Si erano conosciuti così, sulla porta del bar Mazzini. L’aveva lasciata passare, lei era arrossita e aveva abbassato lo sguardo. Dopo una settimana era innamorata. Continuava a ripetergli che non avrebbe funzionato. Che non sarebbero andati da nessuna parte. Finché lui la spingeva sul letto. La sua bocca si riempiva con dei basta che avevano il sapore di dieci ancora. L’aveva portata a Milano e lì l’aveva lasciata. Da quel momento aveva deciso che non avrebbe più permesso a nessuno di farle perdere la testa. Era in città e ci sarebbe rimasta. Era passata dagli alberi di ciliegio ai grattacieli a facciata continua.

Non era riuscita più a tornarci, in campagna. Ci aveva provato, ma mentre percorreva le strade ricamate sulle colline, il respiro si era fatto corto. Le faceva paura quella natura a perdita d’occhio, senza nemmeno una casa. Le strade delimitate dal cemento armato, la facevano stare bene. Aveva bisogno di mura di cartone, stanze microscopiche e orizzonti da trincea. Dove controllava tutto aprendo e chiudendo una porta. Niente era più accogliente della sua giungla di cemento.

(di Daniela Fabbri)