Mark Renton

Qualcosa che nessuno è mai riuscito a capire. Questo eravamo. Fin da piccoli. Matilde e Damiano. Damiano e Matilde. Tu hai abbattuto per primo la sacra regola del “non giocare con le femmine” ed io la sacra regola del “se ci esci da sola, allora siete una coppia”. Siamo cresciuti insieme, abbiamo passato giorni e notti ed estati e inverni a parlare, raccontarci tutto, anche i silenzi.
Da grandi, quando le cose hanno cominciato ad essere difficili, ci bastavano una bottiglia di vodka e delle sigarette. I problemi li lasciavamo salire verso il cielo con il fumo, alle 4 del mattino, distesi su una panchina del parco.
La nostra panchina. Quella che a 16 anni, in un pomeriggio di noia, ho ridipinto di rosa, mentre ascoltavamo gli Stone Roses dallo stesso paio di cuffiette e fumavamo Winston blu. Checché ne pensasse il comune del paesino di provincia gretto e bigotto in cui siamo nati, cresciuti, ci siamo lasciati rovinare.
Credevo che io e te fossimo come un romanzo di Ammaniti. Assoluto. Non dico la perfezione, anche la perfezione è soggettiva, ma…qualcos’altro. Se non riuscivano a darci una spiegazione allora eravamo salvi, giusto? Niente e nessuno poteva più toccarci, no? Non mi hai mai dato delle risposte. Neanche io te ne ho mai date. Le domande sono da sempre la mia passione, sono eternamente bloccata alla fase dei perché dei bambini di 4 anni.
Mi chiedi di tornare. Mi dici che la prossima settimana ti sposerai con una che non ho mai visto. Di cui non mi hai mai parlato. A quanto pare, questa non ce la possiamo lasciare alle spalle. La sposi perché sa cosa vuole, non ti fa domande, ti da risposte. Tornerò a casa, verrò al matrimonio. Siederò tra i tuoi amici, terrò tuo nipote in braccio durante la cerimonia. Sarò il fantasma del passato e lo scheletro nell’armadio (in un tubino nero H&M). E mi dimenticherò dei caffè americani d’asporto, le canne, la musica, i libri, i film, i regali fatti e quelli mancanti, delle cose che io ho rubato a te e tu a me, delle bici parcheggiate all’ombra mentre noi prendevamo il sole, delle notti e le feste, le albe che abbiamo visto spuntare, dei viaggi a vuoto in auto perché non avevamo un posto dove andare.
So di essere il più triste tra i cliché, “il matrimonio del mio migliore amico”, ma sembra che alla fine un posto dove andare tu l’abbia trovato. Mi sta bene. Scegli la vita e un maxi-televisore del cazzo, un frullatore, uno spremiagrumi elettrico e la più classica e utilissima scacchiera in marmo. A me, resterà sempre Bologna.

(di Elena Donatello)