Meanwhile

Alla mia Marta.

Gallipoli, 20 dicembre 1915.

“Figli di troia”, sbottai. “Grandissimi figli di puttana. Continuano a spararci addosso, giorno e notte. Ma domani sferreremo l’attacco, e vedremo. Vedremo quanto faranno gli sbruffoni, questi dannati inglesi, quando li staneremo e li sgozzeremo ad uno ad uno!”. “Non ti agitare. Ogni cosa a suo tempo.”, disse Serj. A guardarlo, pareva una statua. “Come cazzo fa a stare così calmo?”: mentre  questa domanda mi rimbalzava in testa, un colpo di Enfield mi sfiorò di un palmo l’elmetto. Inveii nei confronti della loro lurida regina, poi mi girai verso di lui. “Vattene a quel paese, tu e la tua calma!”. Sorrise. La sua pacatezza era davvero disturbante. E passò così, ora dopo ora, colpo dopo colpo, la notte.

Alle sei del mattino arrivarono i rinforzi. Arroganti, ecco i fischietti degli ufficiali, che ci chiamarono a gettarci fuori dalla trincea in una luce azzurrina che azzannava le ultime tenebre. Ci lanciammo verso la terra di nessuno sbraitando come animali sotto qualche sparuto colpo di fucile. Arrivammo ai reticolati, che dilaniammo a suon di granate, e finalmente oltre, sino alla trincea del nemico! Pugnale alla mano, ci gettammo in cerca delle loro gole. “Vi squarteremo come capretti!”. Urlavamo così, finché, giunti nella linea nemica, ci rendemmo conto dell’inganno. I bastardi avevano ingegnato un meccanismo di ritardo per i fucili, che continuarono, da bravi soldati, a sparare anche in loro assenza. Gli inglesi chiamarono questo stratagemma “drip rifle”. Noi restammo lì, attoniti. Il nemico era già lontano, evacuato via mare nottetempo. Sentii una voce. Mi disse: “Il buio ci ha ingannati, ed il nuovo giorno ci ride addosso”. Mi girai. Lo guardai fisso negli occhi. “Vaffanculo, Serj”, gli dissi. Ed il mio respiro e il mio sguardo si persero nelle grida dei gabbiani in un cielo livido.