Nel nome del Padre

In quei mesi ero stato un lago alpino sepolto dalle nevi. Mi limitavo a respirare la polvere alzata dai miei respiri. Nelle cristalline notti, zitto avevo nutrito le mie creature, tritoni e salmerini, salamandre silenziose e ansiose lumache.

La vacanza in Iraq tornava raramente a farmi visita, ma quella faccia, quel Daboliu Junior, rispondeva ad ogni mio richiamo. L’uomo giusto al momento giusto. Avete la coca? Si, certo Daboliu. Le mignotte? Si, certo Daboliu. Al mio ritorno, senza troppo rumore avevo trovato rifugio in una malga. Nel giro di tre mesi le provviste erano in quota, avevo sistemato la stufa e abbattuto sette pini che oscuravano la radura. Il bosco era profondo, quieto. Preparavo il mio inverno coi piedi piantati nel pantano.

La polvere del deserto frusciava lontana sotto le suole, ma quello yankee grattava come un cane dietro la porta e rideva, rideva. Una notte d’inverno aprii gli occhi, fissai il buio appeso al soffitto di tronchi. La luna alla finestra. Pestandomi il berretto sulla testa mi sfilai dalle coperte, calzamaglia e scarponi, uscii, croccava la neve. Alzai lo sguardo puntando il naso verso Occidente, fiutai l’aria: sangue. I pini garrirono al vento.

Le mie mani si infilarono tremule nel fosforo bianco di Fallujah, nei sotterranei dei templi crudeli, nelle stanze del dolore di Abu Ghraib, negli occhi assenti dei martiri e nei loro intestini svuotati, nei segreti confessati al tramonto di un’Era.

Un fascio di luce esplose dal bosco. Buh! L’ometto in giacca e cravatta. Una folla di fantasmi faceva da altare. Si dondolava sui talloni l’ometto, le braccia dietro la schiena. Tacco punta, tacco punta. Lo guardai dritto negli occhi. Si fermò un istante, mezzo sorriso sui denti. Lo affrontai. Daboliu Junior, siamo qui, tu ed io, soli. E’ ora di rendere i conti al Padre. Rideva impunito. Quel figlio di un Senior.