Perfettamente integrato

Nel Granducato di Sberlonia il granduca Sberlone VIII, detto “Mano Pesante”, ha deciso di far costruire un nuovo castello.
Quello vecchio non va più bene. Il fantasma di suo trisnonno, Manrovescio III detto “Ceffone il Rude”, continua ad agitarsi per le sale polverose dell’antico maniero: si lamenta tutta notte come avesse il mal di denti ed emette un fastidiosissimo rumore di sganassoni che non lascia riposare nessuno.
Per comprendere la solennità della decisione di Sberlone VIII è bene spiegare che il Granducato di Sberlonia non è molto grosso; è anzi in effetti piuttosto piccino. Per dirla tutta, così piccolo che lo si potrebbe rinchiudere in una virgola di noce. Però ha una particolarità che tutto il mondo gli invidia: la sua fisionomia inalterata da secoli.
Da quando Sberlone I detto “Il Menaorsi” lo ha fondato nel 1457, non un solo edificio è stato anche solo ritinteggiato. Ogni cosa è esattamente come all’epoca, ragnatele comprese.
Per questo il Granducato è oggetto di tanti studi, visitato ogni anno da migliaia di turisti.
E proprio per questo la decisione di costruire un nuovo castello è stata tutt’altro che indolore.
E’ un fatto, però, che l’anima di Ceffone il Rude di notte si fa sempre più irrequieta e gli sganassoni sempre più rumorosi. Sberlone VIII non ce la fa più: sono settimane che non dorme, neppure prendendo la camomilla alla sera. Neppure contando le pecorelle. Neppure se il primo ministro gli legge la costituzione per farlo addormentare. Ha i nervi a pezzi.
Convoca pertanto a palazzo Von Bahnhaus, il più famoso architetto del mondo, e gli spiega la situazione: “Ormai sono settimane che non dormo più.”
“Neppure se beve la camomilla prima di andare a dormire?” gli chiede professionalmente il più grande architetto del mondo.
“Neppure se bevo la camomilla prima di andare a dormire,” risponde il granduca con un gran sospiro.
“Capisco, la situazione è dunque grave. Non si preoccupi, Vostra eccelentitudine, qui ci penserò io. In men che non si dica erigerò il più bel castello che sia mai stato concepito.”
“Sì,” lo previene il granduca. “Voglio però che tutto sia perfettamente integrato con il resto del paese. Voglio che siano usati gli stessi materiali, la stessa muffa e le stesse ragnatele, mi raccomando!”
Ma Von Bahnhaus non lo sta già più ad ascoltare, ha temprato la sua matita e già disegna progetti sul retro di un pacchetto di gomme da masticare mentre in prussico (la sua lingua natale) lancia sfide ed invettive alle divinità dell’edilizia.
Dopo un quarto d’ora la parete nord del castello già non esiste più e un alito di tramontana fa ruzzolare via metà del mobilio. A mezzogiorno il gabinetto è scomparso; alle tre del pomeriggio Sberlone VIII si ritrova senza la dispensa di caramelle al rabarbaro. Mestamente il granduca considera la situazione: “Ho duemila stanze nel castello, per quanto qui si proceda rapidamente, non ci vorranno meno di tre o quattro mesi perché i lavori siano ultimati; ed io non posso restare tre o quattro mesi senza andare al gabinetto… e soprattutto senza caramelle al rabarbaro!”
Così decide di ottimizzare il tempo concedendosi una vacanza.
In quattro e quattr’otto prepara la valigia, si affaccia al balcone a salutare il popolo festante, chiude il gas, e parte alla volta delle grandi capitali mondiali.
Il soggiorno di Sberlone VIII ai quattro capi del mondo va che è una meraviglia.
In Spagna si diletta nella corrida dove prende a schiaffoni un grosso toro che fa cacche enormi. Nella Antille partecipa alla caccia agli squali e ne addomestica un paio a suon di tortorate. In Tanzania ci va per vedere il tramonto nella savana, ma un rinoceronte gli fa fuori la riserva di caramelle al rabarbaro e il granduca è costretto a sedarlo a furia di manrovesci. Con una sberla di passaggio raddrizza la torre di Pisa, e nel peggior bar di Caracas si diverte un po’ a menar le mani; così, tanto per farsi due risate.
I mesi passano rapidamente e pur con la tristezza nel cuore deve alla fine abbandonare quella bella vita girovaga. Saluta i tanti gli amici che si è fatto nel corso di queste vacanze, scrive una cartolina al suo primo ministro per dirgli che sta tornando e salta in groppa all’aeroplano che lo riporta a casa.
Non è arrivato ancora a toccar terra che alla vista del Granducato ha un sussulto che tutto lo sconquassa. Nel bel mezzo dell’antica contrada di Sberlonia, tra bifore e gargoyles, svetta un arcigno grattacielo in vetro e cemento che proietta la sua lunga ombra sul resto del Granducato.
“Voilà!”, lo accoglie raggiante il Von Bahnhaus con la matita dietro l’orecchio e i progetti arrotolati sotto il braccio. “Perfettamente integrato!”
A Sberlone VIII va per traverso la caramella al rabarbaro e viene un gran prurito alle manone; non sapendo come sfogarsi ne molla due di quelle ben date alla costruzione che va giù come fatta di carta.

“Ricostruitemelo com’era prima!” dice con un gesto leggero ai cantonieri, che si mettono al lavoro e in un batter di ciglia ritirano su il castello esattamente come una volta. Muffa e ragnatele comprese.
Ma il Von Bahnhaus è di quella razza prussica che non inghiotte facilmente i rospi. Anche perché gli fanno un po’ schifo. Ribollente di rabbia e d’orgoglio si gonfia in viso e in petto come un arco a tutto tondo, la faccia gli diventa rosso mattone e mulinando l’indice per l’aria come una chiave di volta impazzita esplode furioso: “Voi non sapete chi sono io! Io sono il grande Otto Von Bahnhaus, il più grande architetto del mondo! E voi non siete altro che degli zotici: pretendo mi si dia quel che mi spetta e poi addio a questa borgata da quattro soldi!”
“Borgata da quattro soldi?!” domanda il granduca inarcando il sopracciglio a sesto acuto.
“Esattamente!” conferma impettito dalle fondamenta al tetto il Von Bahnhaus.
“Quel che vi spetta…” ripete allora il granduca; e si mette a succhiare una nuova caramella al rabarbaro, segno indiscutibile che la sua mente sta macchinando qualcosa.
“Sì, quel che mi spetta!” replica indignato il Von Bahnhaus.
“Bene,” dice allora Sberlone VIII dopo aver preso la decisione. “Credo proprio che vi sapremo dare ciò che meritate. Attendete qua.”
E così dicendo si allontana, lasciando il Von Bahnhaus nella sala del trono.
Alle sue spalle compare il fantasma sorridente di Ceffone il Rude.

Senza neppure bisogno di bere la camomilla, il granduca si infila la camicia da notte e si mette a letto, spegne la luce. E nel buio, come se fossero pecorelle, comincia a contare il rosario di sganassoni che si abbattono sull’architetto.
S-ciaffff…Uno…S-ciaffff…due…S-ciaffff…tre…
Non fa tempo ad arrivare a dieci che in un largo sorriso già ronfa beato.

(di Francesco Scarrone)