Pranzo di famiglia

In paese tutto era calmo. Il campanile segnava mezzogiorno e mezzo, nella piazza deserta un nespolo svettava di molto oltre un muretto grigio e delle palme in vasi di pietra davano un tocco esotico alla strada. Il cielo limpido era sporcato solo dalla scia bianca di un aereo, e un vento di tramontana obbligava la gente a indossare giubbotti pesanti e cappelli di lana. Un gatto nero, magro, le costole in rilievo, stava con occhi sonnacchiosi davanti a un’edicola, come una vedetta messa appositamente lì. Nell’istante in cui Anna passò, l’animale si leccò con cura, agitò piano la coda, dopodiché si allontanò con molta grazia. Dei ricci biondi le scesero sul collo, e benché fosse in ritardo per il pranzo, la ragazza si fermò comunque ad osservare il gatto fare un balzo sul muretto e riprendere a leccarsi le zampe. Il suo sguardo scivolò poi sull’asfalto, dove era stato disegnato con un gessetto un grande rettangolo diviso in otto parti: i numeri dentro la campana erano scritti in una maniera alquanto elaborata, e probabilmente i bambini ci avevano messo del tempo prima di iniziare il gioco.
Anna respirò a fondo, uno sguardo di attenta valutazione, e scosse il capo quando controllò l’orologio. Le ombre, pian piano, cadevano giù dalle abitazioni come se fossero un sipario; da una finestra aperta proveniva uno strano rumore, come una coperta battuta da un forte vento. La ragazza accelerò dunque il passo, superò decisa il gatto, le ombre, la finestra aperta e imboccò una discesa che, dalla vicina chiesa, portava alla casa di sua nonna. L’odore di baccalà le riempì il naso già all’ingresso, e il suo fastidio crebbe ulteriormente per il rimprovero che le rivolse la madre, sorvolando sul buongiorno.
«Possibile che sei sempre l’ultima?».
«Mi sono fatta la doccia» si giustificò lei e si sfilò il cappotto marrone che frusciava alle caviglie.
«Se hai tanto da fare allora svegliati prima».
«Che palle».
«Che hai detto?».
«Niente».
La signora aggrottò la fronte, con le sottili sopracciglia che si piegavano verso un naso piccolo, a punta, e le palpebre che tremavano per l’irritazione.
«Cammina che aspettiamo tutti te».
«Eccomi».
Nella grande sala subito dopo l’ingresso, una lunga tavolata era disposta in diagonale. Numerose crepe, strette e non tanto profonde, rompevano il bianco accecante del soffitto a volta. Non c’erano finestre e un miscuglio di voci galleggiava nell’ambiente. Tutti accolsero l’ultima arrivata con dei sorrisi che sapevano tanto di sollievo, e un timido applauso si mischiò a quei saluti.
«Finalmente».
«Si mangia».
«Era ora».
«Alleluia».
«Scusate il ritardo» disse la ragazza.
Anna diede due baci sulla guancia della nonna, una donnona dal volto roseo e i capelli bianchi sciolti che la invecchiavano ancora di più, poi prese posto. Oltre alla madre, che indossava una mantellina scura con una discreta eleganza, altre due signore si affrettavano a portare i piatti, trascinandosi con comode ciabatte su un pavimento a scacchi colorati.
«Ma è possibile ogni volta» affermò un uomo dall’aspetto burbero, e contrasse i muscoli del viso fino a creare delle profonde rughe. Non c’era rabbia nella sua voce, piuttosto una qualche tendenza all’autorevolezza.
«Scusa papà».
«È pronto da un pezzo».
«Sempre a te dobbiamo aspettare» s’intromise un ragazzo con i capelli spettinati, come se gli avessero passato una mano in testa.
«Sta zitto tu» replicò lei e aggiunse, quasi a sorpresa «ma la badante di nonna. È scappata?».
«No cretina. Ha delle ore di permesso, torna più tardi» ribatté il ragazzino.
Lo stridere delle forchette e dei coltelli sui piatti per un attimo prese il sopravvento sulle parole. Le pittule erano ancora calde, il pane affettato messo in cestini di vimini, le olive e i formaggi stavano in ciotole scheggiate che avevano visto tempi migliori. Anna tuttavia mangiava con poco appetito: dava piccoli morsi e sollevava le posate con cautela, come se fossero estremamente pesanti e fragili al contempo. Ogni tanto, quasi percepisse un segnale di pericolo, un’espressione assorta spuntava sul suo viso mentre controllava il cellulare. Riprendeva quindi a mangiare e quell’espressione per un po’ svaniva.
«Ehi Anna. Na! Assaggia» disse un signore seduto a capotavola. Aveva capelli grigi e occhi verdi, una pelle molto liscia e un fisico corpulento che si faceva notare facilmente.
«Che cos’è zio?».
«Assaggia ti ho detto».
«Dammi» esclamò lei e diede un boccone dal vassoio che le veniva offerto. «È salatissimo».
«È arenga».
«Fa schifo».
«Non mangi niente» ridacchiò una bambina che si dondolava con la sedia.
«Elisa che vuoi?» chiese stizzita Anna e addentò un pezzo di puccia.
Lo zio agitò il coltello per aria, allegro, e si versò del vino. Il labbro inferiore gli si piegava verso il basso quando sorrideva, imprimendo sul suo volto una certa malizia, che appariva del tutto casuale.
«Allora oggi conosciamo ‘sto Paolo finalmente».
«Ha detto che sarebbe passato per l’amaro».
«Io l’ho visto. È brutto» dichiarò Elisa continuando a dondolarsi.
«Vuoi piangere oggi?» urlò Anna e allungò la mano per darle un pizzicotto.
«Smettetela. Elisa stai composta» disse la madre con una voce che non ammetteva repliche.
Senza alzarsi da tavola, un terzo uomo nel frattempo gonfiò il petto e incrociò le braccia stringendo con le mani i bicipiti, quasi li stesse pesando. Aveva delle mani grosse, piene di piccoli tagli e striature verticali sulle unghie.
«Mina, che vino è questo?» chiese improvvisamente rompendo il suo silenzio.
«Non lo so Simone. Primitivo forse?».
«No macché. È troppo dolce, amabile».
«È Malvasia, sicuro» aggiunse il padre di Anna.
«Sì cognato, hai ragione. Malvasia» sentenziò lo zio a capotavola.
«Comunque col pesce va il bianco» obiettò Anna.
«Non fare l’esperta. Bevi e basta».
Dopo gli antipasti ci fu una breve pausa, e quando venne servita la minestra col baccalà, i tre bambini più piccoli che sedevano al centro iniziarono a protestare. Anche Anna arricciò il naso davanti al suo piatto e avvicinò una mano alla bocca, come sopraffatta da un senso di nausea. Un mugolio emergeva profondo e lagnoso, e la sua faccia trasmetteva disprezzo.
«Anna, però quel poveretto l’intera razza in una sola botta gli fai conoscere» disse un ragazzo biondo seduto accanto alla nonna, per tornare al discorso precedente.
«Gli tocca» si limitò a rispondere lei, con lo sguardo deciso che rivelava una posizione inamovibile.
«Potevi almeno iniziare solo con zio Massimo e zia Lella».
«Cugino, lo sai quante volte l’ho invitato a casa. Adesso si attacca e li conosce tutti insieme».
«Fabrizio, piuttosto che parlare, passa il vino che da queste parti è finito» ordinò l’uomo a capotavola.
«Papà non te lo scolare tutto».
«Cesare tra tre giorni ti devi fare le analisi, non esagerare» tuonò una voce femminile.
«Eh Lina mia! Non ti preoccupare».
Di fronte a quella frase la donna sbuffò. Aveva il mento diviso in due, una fossetta sulla guancia e la maniera un po’ goffa di annuire, come se procedesse a scatti. Ingoiò un cucchiaio di minestra con un risucchio irritante, ed emise un acuto piagnucolio infantile.
«Fatti tuoi. Fai come ti pare».
«È festa Lina, per oggi un bicchiere in più non fa male» annunciò il padre di Anna.
«Massimo, pure tu vedi di controllarti» intervenne Lella.
«Che puttanate vai dicendo».
«Cognato, lasciale perdere. Sorelle sono. Salute!» gridò Cesare e sollevò il bicchiere.
In quel momento, l’inconfondibile rumore di un piatto che si rompeva, fece piombare tutti nel silenzio per qualche secondo. Anna invece prese il cellulare e lo guardò con attenzione: c’era qualcosa sul suo volto, che dava la sensazione di essere perennemente preoccupata.
«Che è successo. Tutto bene?» gridò Cesare.
«Sì tranquilli» rispose Mina dalla cucina con un tono timido, basso, che sembrava provenire da molto lontano. «Mi è solo scivolato un piatto».
«Sempre la solita» sentenziò Simone e sventolò le sue grosse mani.
«Dai zio, capita» dichiarò Fabrizio.
«E solo a lei capita. A casa sai quanti piatti e bicchieri ha fatto fuori».
«Fesseria, non è successo niente» disse Massimo.
«La mamma è casinara» aggiunse il ragazzo con i capelli arruffati.
«Tu taci».
Le altre due donne andarono di fretta in cucina per aiutare a pulire. Dall’ingombrante stufa in ghisa, recentemente aggiustata, il crepitio del fuoco era simile a uno schiocco di dita. A quel punto la nonna spostò il bicchiere, facendosi versare dell’acqua, e mosse le labbra in un sorriso garbato. Aveva gli occhi vispi di chi ne ha viste tante nella vita, e coltivava in pubblico una gentilezza e un decoro che nemmeno un ictus erano riusciti a scalfire. Sorrideva sempre, come fosse un comportamento appropriato per ogni situazione. Osservava quindi le sue figlie, i rispettivi mariti e i nipoti, con uno sguardo che conservava un’innegabile serenità.
Le orate al cartoccio per secondo ebbero sui bambini lo stesso effetto di repulsione della minestra, e subito partirono le lamentale. Una forchetta finì per terra, nascondendo il suo tintinnio metallico in mezzo a tutti gli schiamazzi.
«Solo pesce».
«Ci sono le spine».
«Non mi piace».
«Perché non ci sono le patatine fritte?».
«E che cavolo! Non lo mangiate se non lo volete» sbottò Lina.
Lella intanto si rialzò annaspando per raccogliere la forchetta, con una lentezza terribile, irritante, quasi a fatica. Anna non la smetteva di controllore il cellulare, il volto acceso di una crescente inquietudine che sembrava pretendere qualcosa. Tutti gli altri invece erano concentrati a mangiare, solo la nonna era in attesa, immobile: tendeva ad abbassare le palpebre mentre osservava una delle figlie che le spinava il pesce, come un allievo attento alla lezione.
«Buono Mina, complimenti» esordì Cesare con la bocca piena.
«Guarda che lo ha fatto tua moglie» replicò indispettita Lina.
«Solo tu?» aggiunse Lella con la rabbia che le riempiva la voce.
«Brave tutte» intervenne Massimo alzando per l’ennesima volta il bicchiere.
Nel bel mezzo del battibecco e senza smettere di masticare, Cesare prese il cavatappi e una bottiglia, ma la famigliarità di quel gesto si tramutò in incertezza ed esitazione su quelle mani stanche. Tuttavia, con un considerevole sforzo, riuscì ad aprirla, schizzandosi il maglione blu a rombi rossi.
«Bravo!» esclamò Lina increspando le labbra.
«Sto cavatappi non mi è nuovo» disse Massimo sgranando gli occhi.
«Lo abbiamo portato dal nostro viaggio sulle Dolomiti» precisò Lina.
«Ha più di cinque anni» annunciò balbettante Mina.
«None, vai confusa. Papà era ancora vivo quando siamo andati lì» contestò Lella.
«Da quanto è morto papà?».
«Sette anni».
«Come vola il tempo».
«Nemmeno ti accorgi».
Quando erano quasi le quattro del pomeriggio, i bambini presero a giocare e a rincorrersi. Sulle lische in un piatto di plastica, una mosca si sfregava le zampette e la luce pallida del lampadario pareva concentrarsi solo verso il centro della stanza, trascurando gli angoli. Comodamente adagiati contro lo schienale, i tre uomini adulti adesso sbadigliarono quasi in contemporanea, e tracciavano immaginarie linee per aria mentre gesticolavano e discutevano. A fine pasto la frutta secca, i panettoni avanzati, i mandarini e i finocchi stavano su una tovaglia cosparsa di aloni di vino, tovaglioli sporchi e briciole di pane. La moca era già pronta, preparata puntualmente da Mina, e gli amari erano stati tolti dalla credenza. Anna oramai era fissa sul cellulare, occhi pensosi su una faccia asciutta. Aveva mangiato poco, il pesce a malapena lo aveva toccato.
«Allora? Sto Paolo arriva che stiamo all’amaro?» chiese Massimo e con uno scatto afferrò il bicchiere per un ultimo sorso di vino. «Passami il Capo per favore Lella».
«Aspettiamo un altro po’».
«No mamma. Ha detto che non passa» confidò Anna con una certa commozione.
«Perché?».
«Ha la cacarella» scoppiò in una risata convulsa Elisa.
«Vai a cacare te».
Anna si sistemò i capelli dietro le orecchie, batté il piede contro il pavimento e istintivamente sentì che stava per scivolare nel pianto. Poggiò una mano sul bordo del tavolo e spinse indietro la sedia per alzarsi.
«Ehi! Lascia perdere, dai retta a tuo zio» consigliò di colpo Cesare, guardandola con occhi severi.
«Non ci pensare» aggiunse il padre.
«Se non se la sente peggio per lui» sentenziò Lella. «Se vuole viene un’altra volta. Va bene?».
«Certo» disse Anna con un risolino represso, che non nascondeva la delusione che provava.
La ragazza si mosse per andare in bagno, ma vacillava sulle gambe affusolate. Sbatté la porta e si chiuse a chiave. Posò poi la testa contro le piastrelle del muro, gli occhi le erano diventati rossi e iniziò a singhiozzare. Si guardò intorno per cercare qualcosa con cui soffiarsi il naso, ma il rotolo di carte igienica era terminato e scoppiò così in un urlo strozzato. Nel frattempo la gente a tavola, dopo un’inziale momento di silenzio, riprese a parlare ma in un modo più contenuto, come trattenuti ancora da un velo di imbarazzo. Eppure tutti si azzittirono di nuovo quando la nonna provò a parlare, e per la prima volta in quel giorno smise di sorridere. Le labbra divennero bianche, come di marmo, le mani piene di efelidi erano incrociate sul grembo e una smorfia triste si delineò in quel groviglio di rughe. La sua solida figura non si mosse nemmeno quando si udì il suono del campanello: la famiglia si guardò attonita per un attimo, solo Lina si alzò per andare alla porta.