Racconti dall’intestino

È tutto così scuro qui. Ogni tanto la peristalsi, ogni tanto qualcosa di più croccante e ogni tanto qualcosa di davvero amaro. Il mio padrone non sa che sono qui. Quel giorno stavo riposando sopra una fettina di lombo di maiale quando il culturista, decidendo di spararsi la sua dose di proteine quotidiana (assieme al biberone illegale che si beveva tre volte al giorno), cucinò la fettina e io fui svegliata nel mio sonno. E vai, giù nell’esofago e poi dritta fino allo stomaco e dopo qualche ora, l’intestino. Ed eccomi qui, in questo maledettissimo intestino in attesa di essere scovata per poi essere definitivamente annullata. E nel frattempo me la spasso a corrodere dall’interno questo effimero essere umano che ha nella mente solo i muscoli e l’olio da spalmarsi in tutte le parti del corpo, anche le più svariate. Oggi però, ho deciso di confidarmi con voi. La vita del parassita non è bella come molti la credono: tutti si aspettano che tu boicotti qualcosa, tutti credono che tu non abbia spina dorsale se non accontenti le loro aspettative, tutti vogliono che tu, semplicemente, faccia la parte del cattivo. Da piccola, prima di partire per l’intestino i miei genitori mi insegnarono le regole base della digestione umana e dopo soli pochi mesi di vita conoscevo a memoria i nomi degli enzimi che catalizzano la digestione e sapevo già come sfuggire ai denti per non essere masticata. Sarebbe stato un disonore per la mia famiglia, io dovevo riuscire nel mio obbiettivo perché morire durante la masticazione sarebbe stato mortale per me ma anche per tutta la mia famiglia. Era una prova da superare e chiunque non l’avesse superata segnava se stesso ed i suoi cari. Sono spesso combattuta, dentro di me ci sono pulsioni tendenti al complotto che si alternano ad una grande voglia di salvezza, la mia vita oscilla tra la vita e la morte. Un giorno posso essere colma di cibo, ma l’altro vorrei rifiutarlo per permettere a quest’energumeno di rigurgitarmi dalla bocca: almeno riuscirei ad uscirne salva, perché dal di sotto, al contrario, non si esce vivi. Mi vedo crescere ogni giorno, sono lunghissima e mi sto imbruttendo, non mi riconosco più. Ma in questo mondo, se non mostri imponenza, sei schiacciato, o meglio, il tuo corpo morto finisce nel water. Ogni giorno è una guerra, gli enzimi non fanno altro che attaccarmi ed offendermi ma per fortuna so come affrontarli e loro non mi toccano più di molto. L’altro giorno mi è parso di sentire il mio padrone accorgersi di qualcosa che non va. Ho perso i sensi per un attimo. Seppur non ami questo intestino, seppur non abbia scelto di essere ciò che sono, il pensiero di dover sparire da questo mondo mi spaventa: sono nata per annientare, non per essere annientata. Penso rapidamente ad ogni soluzione possibile e più penso alle soluzioni, più mi rendo conto che in realtà le soluzioni non ci sono e mi limito ad approfittare del cibo di quest’essere spregevole e a folgorare ogni suo minimo secondo perché il rendersi conto che una su mille si salva scatena in me quella voglia istantanea di vendetta che se non viene appagata implode fino ad uccidermi. Così, la consapevolezza che i giorni si fanno sempre più affannosi e e che oramai mi resta davvero poco da vivere penetra ogni mio secondo. Tutto questo vuol dire essere tenia, tenia è un marchio, non puoi togliertelo; e l’unica cosa che aspetti quando sei tenia, oltre al cibo, è di finire morta, uccisa da qualche medicina letale, assieme alle feci del tuo padrone, giù per il cesso.

di Francesca Iorio Garcia