Silenzi

Guardavo la tua nuca che lentamente ondeggiava al di fuori del mio campo visivo. Vividi riflessi incandescenti fuggivano come ladri in tutte le direzioni. Mi sembrava quasi di non riuscire già più a visualizzare il tuo volto. Se serravo le palpebre vedevo due occhi verdi che guizzavano in un perenne moto di irrequietezza, un paio di labbra carnose, il cui rosso sanguigno era accentuato da uno spesso tratto di rossetto, un naso piccolo e arricciato, come se fosse cementificato in una smorfia a metà tra il disgusto e il divertimento. Particolari slegati che non riuscivo a connettere sulla tela più grande del tuo viso.
Sin dal primo giorno in cui avevi varcato la soglia della classe avevo sentito di amarti come nessuna mai prima, avevo avuto subito la certezza che tu fossi la mia metà gemella, quella metà di cui parlava il mito di Aristofane, separata alla creazione e miracolosamente ritrovata dopo chissà quanti millenni di vagare di anime. L’anno era trascorso così in fretta. Un fuggevole susseguirsi di occhiate alla tua nuca. Un timido incrocio di sguardi mai spinto oltre il sorriso e il saluto di cortesia. Un anno così intenso e così vuoto allo stesso tempo, un anno volato, un anno sprecato.
Avevo perso la mia occasione. Te n’eri andata. E io che facevo? Niente. Te n’eri andata. Per sempre. Trasferimento per motivi famigliari. Questo era stato il verdetto della mia sentenza. Tanto enigmatico e misterioso quanto il tuo sorriso sghembo, carico di significati nascosti, infinitamente protesi verso il nulla.
Non avrei potuto farci niente. Non c’eri più. E non ci sarebbero state più occhiate né incrociarsi di sguardi. Niente. Forse ci saremmo incontrati tra una ventina d’anni e avremmo finalmente deciso di realizzare il non detto. Forse no. L’unica certezza era che nessuna, dopo di te, avrebbe significato tanto. Sarebbero state tutte un pallido riflesso lunare. Bello, ma tenue memoria di una luce ben più forte.
Chissà come ci si sarebbe sentiti poi, senza riuscire ad incorniciare in nessun modo l’immagine fumosa che da tempo aveva già occupato il mio tempo e le mie fatiche, senza curarsi di assumere forma alcuna. Sarebbe stato simile al sapore delle prime fragole, alla schiena appoggiata a una parete all’ombra, porto sicuro per l’aria greve di quei giorni di sole. Potevo percepire l’aritmia dei battiti e l’aria farsi pesante; regredire non era un’opzione già da tempo oramai. Avrei voluto dirtelo prima credimi, prima che comunicare diventasse uno strano rebus da sbrogliare, prima dei ripensamenti delle dieci di sera, prima di noi. Noi, di prima. 1a D.

Fine.