Un Lungo Silenzio

Avevamo camminato insieme fino al cancello di ferro, scuro e arrugginito.
Battei un poco i piedi sull’asfalto della strada per scaldarmeli e si sentivano nel buio sospiri e ombre di voci, non molto distante da lì.
Poi venne il treno, riempì tutta la stazione di baccano e di tuoni, filava sbatacchiando risucchiando l’aria, schiaffeggiandoci il volto.

Qualcuno disse,
“Entriamo?”
Timbro tremante, rotto dal freddo.

La sala d’attesa ci accoglieva con un odore di vecchio e muffa.

C’era come una coscienza d’aver altro da raccontare ancora, e nell’aria della notte si vedevano come due spiriti affini, confinati in realtà lontane.
Non saprei dire ora, forse il nostro limite e l’infinito erano entrambi solo l’immaginazione.

Solo con gli occhi, le presi la mano.

Ce ne stavamo sospesi, tra immortali eroi greci e cani randagi con bottiglie di vetro incartonate, eravamo come mendicanti di un limbo quotidiano.
Forse confondevo da troppo tempo il gesto col pensiero, collezionista di tentativi immaginari.

“E’ stato bellissimo scoprire che esisti”.
Immagino che avrei detto così.

Poche parole.
E un lungo silenzio.

Un sedile davanti a me, portava i segni del tempo tra ferite di coltello, gomme da masticare, polvere e colori andati.
Doveva fare proprio un gran freddo, le goccioline di condensa dei vetri e le nuvole dei nostri aliti ne erano testimoni.

“Sai, li ho sentiti lo stesso i tuoi abbracci”.
Immagino avresti detto così, sollevandomi un poco dalla responsabilità di non averlo mai fatto.

La notte era ancora scura, macchiata di ombre vaghe e tra le nuvole basse era spuntata una fetta di cielo rosso a scaldarci le guance.

“Ci penseremo ogni tanto”.
Avrei potuto dirti…
“Chissà se ci verrà da sorridere”.

Ci demmo congedo, tra l’odore di nebbia e di periferia.