Book Pill

Io penso sempre a quando morirò.

Immagino tutto nei minimi particolari: la bara piena di marshmellow, i mazzetti di fiori di lavanda, qualcuno che suona David Bowie. Immagino persone addolorate di partecipare a questo addio. Sento quello che bisbigliano mentre la mia bara piena di marshmellow viene sepolta in qualche bellissima libreria di Roma, forse Giufà, non lo so, non ho ancora deciso. Che diranno di me, di come ho condotto la mia vita? Cosa ricorderanno? Il colore dei miei occhi? La malattia che mi avrà colpita? (La tisi, di sicuro, perché è incredibilmente letteraria e mi ci vedo un sacco nel mio letto a tossire piena di fazzoletti e libri ad invocare il cielo affinché mi risparmi), i miei capelli assurdi, forse?

Immagino la me morta che riflette su quello che non ha fatto da viva e guardando tutta questa gente piangere (perché piangeranno, oh sì che piangeranno. Non ci provate nemmeno a non piangere) pensa che forse avrebbe dovuto scrivere della sua vita. Una vita normale, una vita del cazzo come tante. Un delirio di onnipotenza, come quella volta in cui ha creduto che Nivea sotto la doccia facesse anche da bagnoschiuma. La me morta, un po’ fredda ormai, penserà alle biografie di grandi autori e un po’ si vergognerà di non aver fatto proprio un cazzo di niente di quello che avrebbe voluto. Si ricorderà di quando lesse “Correndo con le forbici in mano”, di Borroughs che poi è un cognome finto, un po’ come il suo, di una vita piena e devastata, di qualcuno che è cresciuto troppo in fretta o che forse non è mai stato bambino. Uno che sapeva da un sacco di tempo di non essere come gli altri. Non migliore, solo diverso. Uno che ha fumato molto presto, ha incontrato la solitudine molto presto, si è scontrato con la vanità e l’egoismo altrui molto presto. Uno che voleva fare il parrucchiere ma che non riusciva a realizzare il boccolo perfetto e non ci dormiva la notte. Uno che viveva attaccato a taccuini, diari, con i disegni brutti, ricopiati dalle copertine delle riviste. Uno che poteva fare solo lo scrittore e che lo ha capito tardi, ma lo ha capito. Uno dalle prime volte invidiabili, quelle che vorremmo raccontare durante le serate con gli amici per fare gli splendidi, quelli che ne sanno, che hanno vissuto.

Uno che ha corso tutta la vita con le forbici in mano, ferendo se stesso, gli altri, di nuovo se stesso, di nuovo gli altri. Uno che ha capito che l’unico modo per vivere al meglio è fingere che ogni volta sia la prima.

“Voglio una vita importante, capisci?” dicevo, studiandomi i capelli nello specchietto retrovisore illuminato. “Si, insomma, voglio che la gente si accorga di me. Non voglio essere una nullità.”

Augusten Borroughs, Correndo con le forbici in mano, BUR, Rizzoli

 

(Tamara Viola)