Tanta beltade non si può ch’esprimere con volto d’una madre

l colore che esprime la madre è l’azzurro, più d’ogni altro.

Un azzurro ch’è polvere di lapislazzuli, terso delle prime stelle che s’intravedono, nel cielo dove il sole si è appena posato.

L’essenza della maternità, la maestà del dolore e il desiderio amorevole, ch’accomuna ogni donna che abbia sia o desideri essere madre, viene catturata in tutta la sua forza in un’opera cardine della storia dell’arte, la cerniera tra la maniera “antica”, arcaica dell’arte bizantina, e l’emozione della profondità, della trasparenza dei sentimenti: il compianto sul Cristo morto di Giotto, facente parte del ciclo delle storie di Cristo della cappella degli Scrovegni.

L’immagine che ho di una madre è qui esemplificata.

Tutti, nella loro vita, sono stati in conflitto con la rispettiva madre. È inevitabile: la felicità del figlio è il sole dell’animo d’una madre.

Difficile è, soprattutto nella giovinezza, accostarsi a questo concetto, tanto che la contrapposizione è sempre dietro l’angolo.

Quest’opera ha profondamente cambiato la mia vita, gl’occhi con cui guardo, e guarderò, a mia mamma.

Perché quest’opera è così potente? Perché riesce a trasmettere l’amore, la sofferenza, l’emozione propria del figlio, legato indissolubilmente alla sua prima donna?

La scena, ambientata ai piedi della croce (la scena precedente del ciclo è proprio la crocifissione), è un magistrale esempio di come Giotto abbia rivoluzionato il concetto spaziale nella pittura: all’assenza nell’assenza di profondità, di pathos e di realismo, tipico della monumentalità e della rigidità dell’arte bizantina, egli introduce un accenno, seppur incompleto e concettualmente errato, di prospettiva spaziale, introducendo quindi una corporeità agli elementi rappresentati nella scena.

L’estremo (per quel periodo storico) realismo con cui l’ambiente è rappresentato, come le pendici del massiccio che fa da sfondo alla scena, sulla cui cima domina un albero povero (sembra quasi rappresentare la vuotezza, la perdizione e l’abbandono che travolgono le anime dei presenti) che tocca un cielo nobile, come il blu di cui è dipinto, è il perfetto simmetrico dei personaggi e dei loro sentimenti.

Il Cristo è esanime, nudo, circondato da una folla disperata che piange la sua morte.

Giotto incarna la drammaticità della scena grazie alla plasticità con le figure sono animate: dagli angioletti che ingombrano il cielo, così belli eppure così disperati, quasi a dare l’impressione di un movimento irregolare, febbrile ed agitato, passando per San Giovanni sotto di loro, strepitante di dolore, con le braccia piegate all’indietro e la schiena inclinata verso il corpo di Cristo.

Le espressioni, le membra, i volti dei presenti sono una completa rivoluzione dell’iconografia religiosa: le sofferenze non sono più celate nel mistico, nella metafisica, ma sono toccabili con mano, pervadono la scena. Se in precedenza le pose erano standardizzate nella loro magnanimità, ora l’osservatore può indovinare il movimento che ‘il corpo dei presenti sta compiendo.

La mimica dei volti cattura l’attenzione: essi sono pieni, carichi, danno la sensazione prospettica delle tre dimensioni. I diversi punti di fuga, frutto di un’intuizione ancora primitiva della prospettiva che sarà poi sviluppata durante il Rinascimento, permette però di avere un punto di vista comunque ampio, e di poter comprendere a fondo l’umore della scena, il clima che si respira nel luogo sacro ove la passione di Cristo raggiunge il suo culmine.

Da notare anche il ricco utilizzo dei colori: sfumature di rosso, verde e azzurro sono lampanti attorno alla figura di Cristo. Vi è un visibile contrasto tra il colore carneo delle sue membra e le ricche vesti dei presenti. Ricche nonostante le genti non siano di nobile rango; ciò induce a pensare che, nonostante la riproduzione del vero sia fondamentale per Giotto, esso sia comunque legato alla tradizione cristiana, che certamente non era pronta ad una rappresentazione eccessivamente pauperistica di figure di culto così importanti.

Da non trascurare anche il significato legato ai colori, che ovviamente riporta alla tradizione: il rosso rappresenta la passione di Cristo, ossia il sangue da lui versato, così come lo spirito santo che è presente in lui. Il verde è invece il colore della speranza, che si manifesterà in maniera compiuta nella resurrezione del Cristo (che sono le scene successive a quella in oggetto).

Infine, l’azzurro.

L’azzurro è il simbolo della Beata Vergine, della madre di Dio e di tutti gli uomini.

È l’unica dei presenti ad esser vestita di questo colore. Che è lo stesso del cielo, il luogo più prossimo a Dio padre.

Il culmine della scena è proprio Lei: le braccia che reggono suo figlio, in un pianto commovente. Il triangolo formato dalla figura della vergine rappresenta uno dei punti di fuga della scena. Le emozioni che si provano non possono essere descritte: il volto morente di Gesù è, nonostante tutto, vitale e caldo. L’espressione di Maria è magistrale: gli occhi sembrano quasi urlare di dolore, mentre la bocca contorta da dà quasi l’impressione ch’essa digrigni i denti.

La compostezza tipica del Romanico e dell’arte bizantina (che si può ad esempio ammirare a Ravenna) è qui abbandonata per dar inizio al movimento, alla carnalità dei personaggi del Vangelo.

In questi movimenti, queste membra, queste passioni travolgenti, ho ritrovato il volto d’ogni madre, che amorevole abbraccia un figlio, stremato dalle sofferenze d’una vita appena iniziato o da poco terminata.

Ed è qui che risiede la massima espressione della vita: tanta beltade non si può ch’esprimere col volto d’una madre.