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Mi chiamo Jasmin e sono nato a Sarajevo nel millenovecentottantuno. Faccio i conti con questo nome da femmina fin dal primo giorno di scuola. “Hasanovic Jasmin”. “Presente”.
E giù a ridere. I bambini sanno essere molto crudeli ma, se ti impegni, umiliarli è un attimo e a me bastava elencare a memoria i novantanove nomi di Allah. Ar- rahman, Ar-rahim, Al- malik, Al- quddus…tutti. Nonno diceva che ripeterli fino allo sfinimento nel tragitto da scuola al minareto di Gazi Husrev-Beg mi avrebbe distolto dal pensiero delle sigarette che ogni tanto ci fumavamo nel bunker aspettando che le sirene di Tuzla smettessero di suonare.“Jas, sai perché Allah ha tanti nomi?” “No.” “Ama farsi invocare e ci ha dato tanti modi per farlo, non abbiamo scuse. Ora prendi i kilim che sono le nove.” Pregare mi stancava.
Cinque volte al giorno, trecentosessantacinque giorni l’anno. Nessuna attenuante. Preferivo farmi le seghe sulle copie di Playboy che rubavo agli americani su a Butmir, quella si che era devozione. Le scovavo, nascoste come ladre, fra le scorte di cibo avanzato dai marines nella guerra del Vietnam che tutte le mattine ci distribuivano in Piazza dei Piccioni.
A Sarajevo si conviveva con la puzza di tritolo, e il colore della polvere dei cannoni usati dai chetnick, era quella del cielo sotto il quale dormivamo ogni notte. Girava la voce che alcuni militari croati li raggiungessero sulle alture della città e pagassero col denaro l’onore di poterci ammazzare. Noi bosniaci abitavamo corpi dalla carne pregiata, ci guardavano come i cacciatori scozzesi guardano le beccacce del Perthshire. Un colpo, centinaia di cadaveri. Non occorreva arruolarsi nell’esercito di Milošević per provarne l’ebrezza, bastava trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Oggi nonno è venuto a prendermi a scuola accompagnato dal nostro vicino di casa, nel tragitto per il minareto vogliono parlarmi del Ramadan.
Camminiamo a passo calmo finchè un militare serbo si avvicina e chiede: “Chi di voi è bosniaco?” Nonno mi prende la mano, apre le braccia e con loro anche le mie. Il militare spinge il proprio fucile sul petto sudato del vicino e gli ordina di ucciderci se non vuole morire.
È stato un M76 ad insegnarmi cosa fosse il digiuno.