Come fosse l’America

49 kg. 49 kg bagnati. Una valigia enorme stile “mi porto dietro anche una bombola d’ossigeno, sia mai là non ci sia”. L’America. A sentir pronunciare la parola hai un dubbio esistenziale adrenalinico sussultorio al solo pensarci, figurarsi appena prima di atterrare. Ancor di più quando in aereo ti somministrano un grazioso questionario US Department of Justice, con gli ossequi della hostess, dove ti chiedono se sei tossicomane, narcotrafficante, assassino o se tra il ‘33 e il ‘45 hai preso parte alle persecuzioni naziste. Sì, stai andando negli Stati Uniti d’America, a vent’anni, per uno stage di tre mesi, nel primo viaggio da sola nel mondo. Sai già che tutto dopo non sarà come prima, sei schifosamente impaurita, tanto che rispondi all’ansia con chili di adrenalina e non fai nemmeno caso alle domande assurde del questionario. Potrebbero anche chiederti se sei mai stato a Gotham City e ti piacciono i pipistrelli, risponderesti con lo stesso strabordante entusiasmo. Lei è una nazi? No yeah! Lei è Batman? No yeah!
Dogana. Un omone enorme col vocione ti chiede per quale motivo sei a New York. ‘Holidays’ ti sei ripetuta per dodici ore di viaggio scalo compreso per non dire altre cazzate (ok, ho infranto la legge dicendo vacanza ma posso pur sempre dire che sono italiana, capiranno). Zampilli da una scala mobile e l’altra come se ti fossi cosparsa di borotalco alla cocaina. Cerchi di dare una parvenza di normalità, invano. E poi…
56 kg. 56 kg non tanto timidi. Due valige incontenibili stile “ho comprato giusto due cosine”. Quando ti rivedranno gli amici ti chiederanno se la Statua della Libertà te la sei mangiata, Grande Mela compresa. Hai corso dietro a un tassista pakistano per aver portato il tuo cliente in ritardo all’appuntamento. Hai dissimulato un pestaggio di un maniaco in metro con il tuo ombrello mentre cercava di appoggiarti il suo sul tuo culo. Hai visto l’alba da un tetto di un palazzo. Hai assistito al tuo primo bacio gay. Ti sei quasi scontrata con Fabio Cannavaro (era l’Estate 2006). Quando poi quel pakistano l’hai raggiunto, e l’hai insultato in tutte le lingue che sapevi tanto non ne capiva una, la mamy della lavanderia sotto il tuo ufficio fa ‘You’re a fuckin’ newyorker, sweetie!’. Se ci pensi ora, a sette anni di distanza, ti rendi conto del misticismo dell’orizzonte. Lo fissi a lungo, quando ancora ti metti l’imbottitura nel reggiseno, ti ci riempi gli occhi per tenerti bene a mente la via di fuga. Poi un giorno, che non ti spieghi nemmeno come, ci vai perché ti ci mandano o perché ti sei talmente stancata di fissarlo che volevi prendertelo, finalmente. Ci stai e ti senti tu, come non mai. Una volta tornata indietro, l’orizzonte rimane lì. Lo puoi trasformare, spostare, lanciare un po’ più avanti o lasciarlo esattamente dov’è, ma pur sempre di fronte a te. E puoi dirti che sì, tu in America ci puoi arrivare.

(di Serena Michelozzi)