Il tatuatore

Ogni tanto appariva all’Osteria senz’Oste, a Valdobbiadene. Diceva che le bollicine del Prosecco gli donavano armonia e magia, e che aveva bisogno di respirare quell’aria per poter vivere. E così giungeva: odorava il vino, beveva i paesaggi e stappava visioni. Lo chiamavano il Tatuatore, perché gli era in dote la virtù di versare il giusto calice di Prosecco, di intuire cosa vibrava nei tannini dell’ anima e di tatuare addosso alle persone un destino più lirico di quello che era toccato loro in sorte.

Il primo che incontrò il Tatuatore fu il Professore, uomo reso sterile e cinico dal passare degli anni. Il Tatuatore  lo vide, gli si avvicinò con un calice di cristallo nella destra e una bottiglia di Cartizze nella sinistra. Non servì parlare. Bastò la danza scandita delle bollicine lineari e il Professore capì. Doveva ricercare entusiasmo, doveva anelare alla piacevolezza del mondo. Bevette, si alzò e tornò luce.

In un autunno lento giunse la Giovane. Donna di spettacolo, di copertine patinate e di frequentazioni illustri. Soffriva i mali del secolo: il materialismo, il nichilismo, l’individualismo. A lei servì un bicchiere ruvido, da osteria, riempito fino all’orlo, fin a far scivolare sul tavolo un Glera morbido e solo leggermente spumoso, quasi frizzante. La Giovane capì che avrebbe trovato la medicina nella quiete, che solo un traboccante amare avrebbe salvato il suo volo vitale.

Poi giunsero i Parolai di professione. Prima, i curiosi. Poi, gli ego digitali e i loro social network. Infine, le locuste: i giornalisti. Non era ancora l’epoca degli scrittori, all’Osteria senz’Oste. E nacque la leggenda del Tatuatore, che a tutti concedeva un calice e una promessa. Le sue gesta vennero raccontate in mille lingue, il suo volto disegnato dalle più controverse fotografie. Finché non finì tutto, e finì quando arrivò la Coppia.

Innocenti, innamorati, giovani. Ricchi del tempo, poveri del denaro. Chiesero del vino, il Tatuatore si accorse che a loro non poteva donare nulla. Si alzò e se ne andò, senza dire una parola. E nessuno lo vide più all’Osteria. La Coppia rimase annichilita, forse ferita: ma disse che quell’addio del Tatuatore  era un passaggio di consegne. Ora i Tatuatori erano loro, e a loro toccava decidere. E scelsero assieme un calice di Prosecco Doc Spumante, fresco e aggressivo. Era appena pomeriggio, quella magia di frutta e perlage entrò in loro e li rese simili agli angeli.

Vissero giorni, settimane, mesi, anni perfetti. Bevvero ai loro calici con meticoloso gusto edonistico, cercando sempre lo stupore in ogni attimo. Ma fugge il tempo con l’ombra, il sonno è una macchia nera che si allarga ed infine domina. E così la Coppia divenne Lui e Lei. Lui era stanco e privo di desideri; Lei leggeva di paesi lontani e di avventure. Lui camminò via, per fluire nella quiete e nel silenzio dei saggi. Lei corse lontano, alla ricerca della lussuria e dell’avvenire dei novizi. E iniziarono a vagare, inconsapevolmente sperduti, tra cieli stellati d’argento e laghi gelidi di blu, tra pianure sterminate di giallo e mari tempestosi di rosso. Infine, giunsero di nuovo, ma stavolta colpevoli, all’Osteria senz’Oste.

Il Tatuatore era lì, immoto. Consumato dagli anni, reso roccia dal tempo. Gli occhi erano dardeggianti, di un grigio glaciale. Era seduto ad un tavolino per tre. In centro, troneggiava una bottiglia di Prosecco Dogc, spumantizzata con metodo classico, il cantico dei cantici. Il Tatuatore si alzò, versò nei calici e fu l’ora del tintinnio che capovolgeva i loro destini. Lei brindò al silenzio: disse che è la solitudine a generare mondi più quieti e assennati. Lui brindò all’ebbrezza: sostenne che la vita è densa e pura solo nel tarantolato tramutare. Il Tatuatore bevve. Era la prima volta, da quando il fato glieli aveva tirati addosso. Si sedette, rilassò la schiena: udiva l’ambrosia dentro di sé. Infine chiuse gli occhi, tanto beatamente che sparì.

di Mauro Pigozzo