Issey Miyake

Aveva un cuore e c’era scritto LOVE. Il rosa manco mi piaceva, ma era l’unica maglia che non mi facesse da tunica monastica e non urlasse, sul capezzolo, il logo di un’impresa edile o il numero del pizzaiolo sotto casa. L’unica alternativa sarebbe stata quella del cigno sfacciato Legambiente. Mica indossavo le felpine della Lonsdale, io. Le Nike non ce le avevo ed ero appena uscita da un mese di agonizzanti delusioni. Saltare la cena non mi avrebbe mai fatto avere il fisico longilineo delle W.I.T.C.H.
Nella disperazione, l’unica certezza erano un paio di Reebok bianche e blu che usavo per giocare a tennis. Emanavano un fetore nauseabondo e le indossavo fiera delle sgommate di terra rossa, prova evidente della mia indiscussa prestanza fisica. La mattina mangiavo panini al latte, mi tagliavo il culo con un paio di jeans troppo stretti, rubavo l’Issey Miyake di mia madre e me lo spruzzavo fino al vomito. Era l’unico disordine alimentare concessomi. Se avevo bisogno di conforto, mi bastava afferrare coi denti il lembo della felpa e inspirare. Inondata da frizzanti svarioni uterini, raggiungevo attimi estatici di beatitudine contemplativa. Altro che quelle creme per stronzette Aquolina o le robe della Pupa. Mica ero tipa da Polly Pocket, io.

Queste cose Ivan non le hai mai sapute. Se avesse saputo che ero una sniffatrice di Issey Miyake mi avrebbe amata. Non ha mai saputo delle mie olimpiadi mattutine per vederlo. Arrivavo in bicicletta, le mie Reebok si libravano dai pedali al cortile, dal cortile ai corridoi, cinque minuti prima, per raggiungere l’unica fonte di calore della sezione B. Un vecchio termosifone scrostato che mi lasciava patacche di ruggine sulle natiche e dal quale potevo studiare attentamente la fauna circostante senza dare nell’occhio.

Ivan arrivava con il pullman e le sue amichette. Era magrissimo e alto. Gli occhi enormi, disumani. Labbra alla Parietti e brillantina del nonno incrostata sui capelli. Le sue amiche avevano zaini pieni di Diddle e Diddlina e 4evers. Jeans rigorosamente Onyx, culi di marmo, brillantini nei capelli e mascara colorato. Una di loro indossava le Prada. Li vedevo ancheggiare a ritmo di Kylie Minogue, ruminando gomme fluo e scambiandosi lucidalabbra alla pesca. Penne glitter, cuffie e smalti metallizzati, si susseguivano a pantaloni a zampa e vite basse, in un vortice di inebriante fervore adolescenziale. Allora, presa da irrefrenabile desiderio, afferravo coi denti il lembo della felpa e inspiravo profondamente. Nemmeno capivo più di chi fossi innamorata. Erano, tutti e tre, giunonici miraggi ormonali e si fondevano con l’immagine di mia madre, con l’emicrania che mi colpiva a pugno le tempie, con le fotocopie dell’Adriana, e la campanella, ghigliottina che segnava la fine di ogni mio piacere.