L’Aratro.

Eccomi qua, dopo più di vent’anni nuovamente seduto in quello stadio dove tante volte ero stato da giovane. Negli ultimi anni lo avevo visto solo di fronte al teleschermo, con la compagnia di mia moglie e il dispiacere di un figlio che aveva scelto di amare un’altra squadra. La fortuna mi aveva però dato un nipote, Marco, con la mia stessa fede calcistica. Appena fu abbastanza grande riuscì facilmente a convincermi a portarlo a vedere una partita. Sarebbe stata la sua prima volta, così risposi subito di sì, ansioso di assistere al battesimo e poter morire tranquillo. Ora se ne stava immobile, seduto sul seggiolino accanto al mio, chiedendomi informazioni su partite che a me sembravano giocate ieri e che per lui erano storia. Sul seggiolino più in là stava invece Carlo, nipote del miglior amico che avessi mai avuto. Suo nonno Giorgio era stato mio inseparabile compagno per molti anni, e sulla soglia dei trenta eravamo anche diventati soci in affari. Aveva sempre voluto aprire un bar e io, che in lui credevo ciecamente, ero davvero convinto avesse i numeri per passare con successo dall’altra parte del bancone. Però ero altrettanto convinto che non l’avrebbe mai fatto. Progetti a lungo termine e roba del genere non erano certo la sua specialità. Se io ero eternamente proiettato in un futuro in cui vedevo i riflessi dei miei sogni e delle mie speranze, Giorgio era invece l’opposto. Lui nel presente ci stava alla grande, impegnato ad immergersi ogni giorno nella vita vera. Ci stava così bene da perdere tutte quelle opportunità che solo chi è ben conscio dell’esistenza del domani avrebbe potuto cogliere. La sua istintività gli valse in compenso una buona dose di giorni pacifici e spensierati. Per me invece il prezzo da pagare fu una costante malinconia e la continua sensazione che avrei potuto trovare la felicità solo il giorno successivo, eterna condanna di chi è costantemente diviso tra la vita che ha e la vita che vorrebbe avere. Così un giorno fui io a proporgli di aprire, insieme, l’osteria che ci avrebbe cambiato la vita, perché sapevo che per farlo aveva bisogno di me. Quindi in un certo senso quella proposta la feci per lui. Per dargli un po’ del mio futuro. Ma la feci soprattutto per me: per rubare un po’ del suo slancio e trovare la forza di aggrapparmi al suo presente. Partimmo subito a caccia del locale ideale e delle cameriere più carine, travolti dall’entusiasmo, e tutto filò liscio fino a quando lui scoprì di essere innamorato della mia morosa vecia. Dico morosa vecia perché la trovo un’espressione infinitamente più carica di senso della parola “ex”, che ho sempre detestato. E continuò ad amarla in silenzio anche mentre piangevo sulla sua spalla, dopo che lei mi lasciò. Alla fine, in uno come Giorgio, non poté non prevalere la voglia di correre da lei. E fece cosa buona e giusta, dato che alla fine si sposarono pure. Ma io che amavo definirmi un suo profondo conoscitore, questo preferii non capirlo. Forse ero troppo occupato con l’osteria, che nel frattempo avevamo aperto e che cominciava a girare a pieno regime. Così quando mi disse che aveva iniziato ad uscirci insieme giuro che provai a passarci sopra, ma niente da fare. Provai con tutte le mie forze a perdonarlo soprattutto perché ero finalmente felice, perché per la prima volta immaginavo il mio futuro esattamente come il presente, dietro a quel bancone che Giorgio aveva insistito tanto per comprare. Ci provai perché nonostante tutto sapevo di aver bisogno di lui. Alla fine decisi di lasciarlo, mandando a puttane amicizia e osteria. Per causa loro avevo ricominciato a desiderare una vita diversa e sentire il bisogno di un nuovo futuro, senza niente che mi ricordasse il passato. Del resto era il tipico comportamento che ci si sarebbe potuti aspettare da uno come me. Così alla fine eccomi qua, in questo giorno d’inverno, a fare i conti con due ragazzini eccitatissimi a cui badare. Li guardo sorridendo, con la sensazione che la mia rincorsa al futuro si sia esaurita. Quel momento in cui archiviare i propri sogni su come si sarebbe voluti essere, e accettare quello che si è diventati, per me arriva oggi. Eccolo qua il mio 2084, il mio futuro, si chiama Marco e mi sta strattonando il giubbotto per dirmi che ha visto il capitano fare riscaldamento. Ha recuperato dall’infortunio, e sarà regolarmente in campo. E di fronte a me vedo anche un altro 2084, il mio futuro come avrebbe potuto essere se le cose fossero andate in maniera diversa. Si chiama Carlo e mi sta chiedendo un’altra goleador. Li guardo entrambi, senza ansie, in questo giorno in cui tutti i pezzi sembrano combaciare. Finalmente nel mio presente, senza un domani, almeno per me.

a cura di Nicolò Pettenuzzo