L’ultima alba

E così capii che no, nemmeno Giovanni la conosceva. Eppure sarei stato pronto a giurare che l’avessi vista uscire dal suo bar abbarbicato sugli scogli, a pochi metri dalla marea.
Però le sue parole erano state precise, non conosceva né il nome né un viso come quello che gli avevo descritto. Non la conoscevano nemmeno Alessandro, il panettiere sotto casa, né Gennaro; ancor meno Luisa del tabacchi o Alfredo della bottega antistante la posta.
Insomma Marina era un piccolo paesello, qualche sparuta anima, e poi mare e mare a disturbare l’asfalto nuovo con la salsedine, eppure: possibile che nessuno avesse mai visto S.?
L’ultimo giorno d’agosto mi sembrò plausibile e non così sorprendente ritrovarmi sulla Torre dell’Alto – quel vecchio rudere seicentesco che troneggia sullo strappo di colline in cui è incassata Marina – a fumare una sigaretta e affidare al mare il pensiero che forse S. non fosse mai esistita.
Possedevo tuttavia buone contro-argomentazioni per dire il contrario.
Avevo chiesto un po’ a tutti ormai di S. Ne avevo raccontato nei minimi particolari, almeno quelli non suscettibili di censura, perché gli altri, come un indumento intriso di profumo, li ho tenuti ben secretati all’interno degli armadi della mia testa. Quest’ultimo, posto decisamente strano, ha conservato con spaventosa lividezza il modo con cui S. mi accarezzava la schiena sul letto di casa mia, la temperatura del vento mentre nudo mi lasciavo disfare dalle sue mani, le angolazioni spaziali che disegnava mentre si stropicciava su di me; il piccolo peso del suo corpo spoglio, levigato come una pietra di fiume, parallelo al mio.
Ho solo raccontato l’essenziale di quella settimana con S., di quei sette giorni che appartenevano sostanzialmente a lei. Labbra piccole, lineamenti cesellati e delicati, colore degli occhi – non senza qualche difficoltà – lunghezza dei capelli, la statura. Con Silvia, mentre mi versava del thè fresco nel bicchiere, mi lasciai perfino sfuggire qualche particolare in più. Le confessai dell’inflessione particolare che aveva S. nel pronunciare il mio nome, in special modo quando muovendosi su di me stava per raggiungere l’orgasmo. Un particolare che al fine di un riconoscimento è decisamente inutile, ma mi resi conto che avevo bisogno io di ripassarlo con la testa e con la mia voce, altrimenti sarebbe svanito sotto la tirannia della dimenticanza. Silvia infatti fece spallucce e tornò dietro il bancone, indicando a Giovanni un altro tavolo da servire.
Passò settembre, poi ottobre, fino a novembre, ma non ritrovai mai quella settimana con S. Non ritrovai più le sue forme, il mio nome nelle sue parole. Logica vuole che dopo tre mesi il ricordo di S. avesse dovuto affievolirsi. Fine novembre non è un buon momento per ricordare gli orgasmi estivi. Non fui però mai sicuro della sua esistenza. Così per non impazzire decisi che quel 31 agosto sarebbe stata l’ultima.
L’ultima alba della mia vita. L’ultima di S.