Rape seeker

Una settimana fa ero stesa sulla schiena escoriata, per terra, gli arti scomposti quasi fossero senza ossa, una bambola di pezza sbranata per gioco da un cane; vagina e sedere mi sanguinavano, lì sotto, aggiungendo rosso al rosso degli slip, calati fino alle ginocchia – avrei potuto non metterli, come la volta precedente.

In una mano stringevo una manciata di capelli fulvi non miei (la consistenza della polvere sulle setole di una scopa, questo patetico tentativo di negarmi), nell’altra il telefono stava chiamando un taxi che mi portasse via da questo labirinto di auto accatastate fuori città. Vicino, una formica si agitava in un grosso sputo di materia bianca e terriccio, come nella sabbia mobile.

Distrattamente studiavo quelle pareti di ferro, le contorsioni delle lamiere, i fari ciechi, i gingilli dimenticati o abbandonati appesi ai retrovisori; poi su verso quell’oscurità dove avrebbe dovuto esserci il cielo, e mi venne voglia di tornare alla formica soffocata nello sperma.

I primi filosofi greci credevano che gli astri – e l’anima – fossero fatti di fuoco.

Fu come guardare uno specchio.

Tra un attimo mi sarei tirata su, senza pensare a come era andata e a come non mi sentivo.

Nel pugno che mordevo, urlai.

Oggi (sta succedendo proprio adesso) lui mi spinge la testa, incerto come se l’idea gli stesse nascendo qui sul momento, contro la parete della doccia. Ha però un cipiglio convinto – devo ammettere – quando me la tiene ben ferma, stretta tra le due ante semichiuse della cabina, mentre sento tra le cosce la durezza dell’erezione che mi fruga disperata.

Poi il colpo di genio: nello stesso istante in cui mi penetra, comincia ad aprire e chiudere con forza le porte di vetro contro la mia faccia; sono inchiodata al dolore, sopra e sotto.

Grugnisco di rabbia mentre le mani artigliano l’aria alle mie spalle alla ricerca del suo scalpo rosso, l’ennesimo trofeo della mia sconfitta.

Si ferma, forse è stanco.

Vestita solo di morsi tagli muco e sangue scappo dal bagno, ma fuori mi paralizzo, stregata da questo specchio che mi riflette tutta. Mi sembra finalmente di vedermi:

Sono sempre e solo voluta arrivare a sentire il desiderio di ribellione concreta verso questa vita, mi sono fatta violentare e violentare e violentare e violentare per spezzare questa morte della coscienza.

Poi lui mi raggiunge, l’urto ci proietta verso il balcone.

Ci aggrediamo, è un aritmico esercizio di danza tribale alla sbarra. Quando mi stacco dal pavimento la stanza e tutta la città si spengono; esplodono gli antifurti, gli allarmi.

Il mio corpo è un arco verso il vuoto e verso le stelle, io stessa sono una cometa mentre cado da questo decimo piano, aggrappata al mio avversario, la mia coda.

Il suo sguardo, che è il mio, lo incollo al volto della guerriera che mi aveva restituito lo specchio.

Precipito, definitivamente viva – voglio vivere -, riesco finalmente a dirlo:

“No!”