Storia di una musa

Nydia aveva preso tutto da sua madre: la bellezza, la discontinuità, l’ardore.

Non aveva mai capito se era stata lei a lasciare suo padre, o se invece se n’era andato lui. In realtà poco importava chi aveva lasciato chi per primo. In quella casa tutti andavano e venivano senza curarsi gli uni degli altri: suo padre compariva periodicamente dopo lunghe assenze, vagava per casa qualche giorno biascicando parole incomprensibili e poi spariva di nuovo, così com’era riapparso; mentre sua madre cambiava lavoro, orari e compagni in continuazione. Nessuno le lasciava indicazioni, nessuno scriveva la lista della spesa, nessuno riparava la lavastoviglie.

Nydia era cresciuta in questo modo, senza freni.

Di tanto in tanto, fin da quando era ancora molto piccola, la scoprivo seduta sulla veranda a osservarci fissa. Penso lo facesse per fingere di avere una vita normale, per capire che cosa fosse.

Aveva imparato ad ascoltarsi e seguire le proprie inclinazioni, chiedendosi semplicemente se l’occasione che le si presentava di volta in volta fosse di suo gradimento. Così facendo, tutto le appariva esageratamente facile e leggero. In questo aveva senz’altro preso dal padre.

All’età di 19 anni era già entrata in contatto con parecchie delle droghe in circolazione, aveva più di un compagno fisso, dormiva spesso fuori casa, lavorava occasionalmente come cubista o barista. Addirittura le era capitato di spogliarsi e di fare la modella. Aveva preso il diploma grazie alla componente maschile dei professori e questo le consentiva di avere anche qualche lavoro un po’ più consueto, ma non per questo lei li accettava.

La sua era un’intelligenza diversa, fra quelle focalizzate su binari a sé stanti di cui nessuno vede l’origine o scorge la prossima direzione, spostata e imprevedibile.

Credo di essere stata l’unica persona di cui si sia mai fidata, forse perché un po’ la capivo, forse perché un po’ mi piaceva, forse perché un po’ le piacevo.

Ricordo quell’unico giorno in cui davvero non capii. Che sciocco sono stato a credere che ce la potesse fare da sola! Non è umana la solitudine, neppure nella vita più agiata, figuriamoci in un disastro qual era la sua.

Oh cara Nydia, perdonami per non aver visto la follia farsi strada nella tua mente.

Ora ve ne andate in giro a braccetto, e a me non resta che incrociare ogni giorno quello sguardo che non ti appartiene, schiavo e sconnesso, intriso di normalità.

Non riesco ancora capire che ore siano precisamente, l’oscurità mi impedisce di vedere le lancette dell’orologio da polso, nonostante la luce inizi ad invadere la stanza dalla tapparella che lascio sempre alzata di qualche centimetro. Si sta facendo giorno.

Non ho dormito granché nemmeno stanotte e la nausea di quando mi sono coricata è radicata ancora più in profondità nelle mie ossa.

Dalla finestra filtrano i rumori della strada: è domenica mattina e a quest’ora i reduci della notte marciano a gruppo verso le loro auto o chissà dove, cantano biascicando le parole e ridono tutti insieme gracidamente. C’è chi si china al suolo, chi rotola al suolo, chi avanza appoggiandosi a tutto quello che incontra, chi danza con una compagna invisibile, e chi vomita davanti al mio cancello… maledetti!! E poi chi pulisce?!! Riuscissi ad alzarmi probabilmente gliene direi 4!! Ma non so chi sia messo peggio fra me e loro, in questo momento. Quello che so è che a loro passerà presto, il dolore invece mi accompagnerà a lungo.

Questi farmaci, mia croce e delizia.. ammortizzano il colpo da un lato e affondano la lama dall’altro.

Ne ho costantemente bisogno, la mia situazione è cronica. Non basta mangiare, dormire e aspettare che passi.

E pensare che anche la mia vita prima era uno sballo continuo!

Mi sono quasi sputtanata l’eredità in festini e scarpe.

Non è cambiato molto se ci penso