Wabi sabi

Rami, riflessi in iridi felici. Inspiro euforia inghiotto acerbo, fiori fragili s’intrecciano tra steli cutanei corvini. Butto indietro la testa.
Apro il cesto, stendo la tovaglia, brezza che pettina decisa, verde amazzonico che circonda fugaci piedi scalzi.
La mia vita sociale non ha mai dato dei risvolti positivi. Colpa delle maschere da cui sono circondato, tutte con il loro ancestrale bisogno di egoismo. Guardali, come sembrano felici là fuori, sotto i frivoli petali di ciliegio, nell’unico periodo dell’anno in cui è loro concesso d’essere cordiali. D’altronde c’è un motivo se ho deciso di passare il resto dei miei tristi giorni in Hikikomori.
Mi siedo a terra, vento che scompiglia, lino che fruscia, s’agita, e avvolge ginocchia ventenni, eteree, che s’allungano pigre su erba sbocciata. Dopo qualche anno di solitudine ho dato un altro valore al tempo, non lo concepisco più come un angusto sgabuzzino nel quale stipare il maggior numero di cose possibili.
Rituale quotidiano venato d’allegria, estraggo sashimi strangolato nel cellophane, verso sakè fumante in ceramica plasmata, sotto cascate di petali trasparenti. Fiori che fuggono, fulgidi, germogli che crescono e crepano nello stesso istante, brevi cadenze farcite d’ eventi, ingordigia che mastica la società e ne frammenta il tempo, degradandolo in mille cocci tormentati.
Dopo il pranzo, come ogni giorno, mi corico nella mia umile brandina trangugiando un caldo sakè. L’alcool sembra evaporare dallo stomaco per andare a depositarsi nuovamente sul palato; sarà meglio farsene un altro.
Poi, di colpo. Boato che ringhia, distante.
Percepisco, capto, realizzo. Nell’arco di un secondo sto già correndo. L’armonia mi sfugge di mano. Urlo, agito le braccia. La paura mi corrode. Soda caustica sotto mentite spoglie.
Qualcosa non mi fa dormire oggi.
Un rumore cupo riempie l’aria e pervade la stanza, i lampadari oscillano. Un terremoto?
Improvvisamente mi sento fragile.
Le parole mi si spezzano in gola, incespicano laringee, esplodono strazianti. Busso alle porte, sbraito alle finestre.
Sarà meglio dare un occhiata fuori dalla finestra. Il caos è palpabile. Cosa sta succedendo? Una ragazza mi passa davanti, giovane, dalla chioma fluente, ci guardiamo per un attimo. Raccolgo uno sconosciuto.
Lo trascino con me. «Scappa, lo tsunami».
Mi porge la mano. Scavalco il balcone con un balzo. Frazioni di secondo. Inavvertitamente inciampo su un ciottolo. Urla lancinanti.
Solo ora mi accorgo di avere ancora la mano nella mano della signorina.
Caos che asfissia. Il rumore alle mie spalle si fa assordante. Acqua che si staglia
all’orizzonte. Imponente, il muro d’acqua avanza.
Catastrofe che implode e lacera. Inesorabile.

La quiete.
Risorgeremo, e torneremo a fiorire.
Petali rosa, sparsi nel vento.

(di Nathalie Antonello e Federico Gianese)