Il mortirolo saluta il giro

Erano da poco passate le otto e come tutte le sere, con la fronte incollata alla finestra del soggiorno, avrebbe aspettato che le luci delle scale si accendessero. Il padre saliva la prima rampa con vigore, due gradini alla volta. La seconda rampa, invece, la dedicava ad accendersi la pipa; sostava sul primo gradino e iniziava ad inspirare, profondamente. Riprendeva la salita fumando al passo lesto di un atleta fallito. Giunto alla porta suonava il campanello, come un ospite, ma meno educatamente. Durante l’inverno suonava e bussava, era il suo modo per dire che sentiva freddo là fuori. In tuta rosa di flanella e pantofole a forma di cagnolino, la bambina correva dalla finestra alla porta in tre secondi netti. Al padre piaceva vederla all’uscio vestita da casa, si sentiva autorizzato a dirle “Sei una buona a nulla senza niente da fare”. Così prima di cena filava in camera sua, indossava le scarpe da ginnastica prese coi punti del Dash e sistemava la coda di cavallo. A tavola non si parlava quasi mai, ma si litigava quasi sempre. “E tu, a chi dai ragione tu?” come scegliere fra pistacchio e stracciatella. Silenzio. Tacere era da vigliacchi, da stupidi, da animali. E come un animale doveva essere trattata, così le lanciava nel piatto la buccia della mela appena mangiata. Non sapendo stare a tavola come un umano, avrebbe mangiato il cibo dei porci. A quel punto la bambina sentiva il cuore bruciare e sgretolarsi in centinaia di pezzi color carbone, le mani gelate sotto il tavolo cominciavano a formicolare, lo stomaco a pungere. Dopo aver sparecchiato in modo distratto, si chiudeva in camera e piangeva, milioni di lacrime silenziosissime. Avrebbe voluto ucciderlo, stringergli il collo fino a farlo diventare livido, provare il piacere di vederlo soffrire, sporcarsi le mani col suo sangue bastardo urlandogli in faccia tutto il dolore che le aveva provocato. Non sarebbe stata vendetta ma giustizia. Lui passava le domeniche pomeriggio davanti alla tv guardando il ciclismo, la videocassetta della tappa Merano-Aprica del 1991 doveva essere la sua preferita, ma al primo allungo di Pantani su Indurain russava da mezz’ora. La bocca aperta e le mani sulle palle, il telecomando sotto al fianco a prova di ladro. Prese un cuscino del divano e con tutta la forza che non aveva gli soffocò il respiro. Il risultato lo conosceva, pensò, era solo una stupida replica.